Il sorriso dell’Azzurro Silvano

Il Cinema Azzurro Scipioni di Roma ha chiuso definitivamente. Lo smantellamento delle sue due sale interne e della piccola hall d’ingresso è ormai già completato. Quarant’anni di tenacia e tenuta dei classici del cinema mondiale d’autore nel suo cartellone se ne vanno così, dopo un solo anno di ristrettezze pandemiche. È partita immediatamente una petizione rivolta alla Sindaca di Roma Virginia Raggi, al Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, al Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. La sala sorge in Via degli Scipioni, all’angolo con Via Ottaviano, a due passi dalle Mura Vaticane. La proprietà delle mura della sala cinematografica, infatti, è di un ordine religioso domenicano, il quale ha economicamente deciso di quadruplicare ecumenicamente l’ammontare dell’affitto alla prossima scadenza contrattuale. Costo davvero proibitivo per un tabernacolo dei tesori cinematografici senza tempo, al di fuori delle mode e dei loro rapidi tramonti nella memoria.

A Silvano Agosti, non solo il fondatore, ma l’anima, la voce poetica dell’Azzurro Scipioni, quelle mura le aveva affittate a un canone davvero economico un monsignore che voleva in quell’angolo sorgesse quella sala e che ad aprirla fosse lui, Silvano, quel bresciano cosmopolita, cosmo-spiritualista, che ha girato il mondo a studiare cinema e a catturare poesia, per portarsela addosso nelle parole e nello sguardo. L’Azzurro, messo accanto a Scipioni, è un omaggio al film documentario Il pianeta azzurro, di Franco Piavoli, del 1981. Agosti aveva visto alcuni spezzoni di pellicola di questo sconosciuto dilettante, come si definiva e voleva restare lui stesso, e lo ha convinto a girare quello che sarà un piccolo grande capolavoro, prestandogli la sua cinepresa Arriflex. Un’opera che ha fatto presto il giro del mondo e ha fatto di Piavoli il grande artista documentarista che ancora oggi è.

Che l’Azzurro Silvano, l’uomo che è l’incarnazione della sua sala, sia un poeta della parola e dello sguardo posso testimoniarlo direttamente. Per un paio d’anni ho tenuto con lui una seguitissima rubrica settimanale sull’emittente Radio Onda Rossa. Allora era una radio spiccatamente militante e molto seguita a Roma. Quando però si metteva al microfono Silvano sembrava che l’intera città si desse appuntamento per ascoltarlo e parlare con lui. Scatenava ondate di coinvolgimento telefonico con il suo parlare pacato, dolce, quasi sussurrato. Porgeva con il dono della grazia vocale le sue visioni utopico-poetiche dell’esistenza, come fossero appena sotto la prima scorza di sampietrini o di asfalto della falsa realtà che appariva ai nostri occhi. “Salendo su un autobus, sulla metropolitana mettete un fiore all’occhiello per far capire che volete fare l’amore”, lanciò in onda una volta. La trasmissione era pomeridiana e di solito durava un’ora, un’ora e mezza: quella volta andò avanti fino a sera inoltrata con un flusso di telefonate in diretta che non finivano mai. E non fu l’unica volta che accadde. Sulla riduzione dell’orario di lavoro, lui era decisamente più radicale della emittente che lo ospitava. E lo era per via poetica più che politica: massimo due ore di lavoro al giorno. Cose che ripete con immutata convinzione, purezza poetico-visionaria ancora oggi. Per questo io a Sindaca, Presidente Regionale e Ministro mi sono limitato a scrivere: “Chiamatelo, telefonategli, convocatelo, ascoltatelo”. Perché niente riesce più convincente e suadente della sua parola.

Andare all’Azzurro Scipioni non era andare soltanto a vedere un film. Era andare a parlare con Silvano. E a parlare a lungo, perché non riuscivi mai a staccarti dal dialogo con lui. Una esperienza che hanno provato sia semplici cinephile, sia molti grandi registi, attori, artisti del cinema che hanno lasciato traccia del loro passaggio con frasi e disegni d’affetto sui muri, sulle colonne della sala. E con tutti – lo posso testimoniare – Silvano parlava con la stessa, identica serietà d’incanto e considerazione. Forse per questo era molto apprezzato anche dal grande filosofo Emanuele Severino, suo amico e concittadino.

Silvano Agosti era diventato ormai le mura stesse della sua sala, anzi le sue mura maestre; e l’Azzurro Scipioni era inscindibile dalla figura, dal flauto vocale bresciano, dal sorriso di Silvano. Dietro la cassa della stretta hall d’ingresso ha scritto – di solito in estate – tutti i suoi libri, i suoi racconti, le sue poesie. Molte di queste pagine sono finite tra le immagini dei suoi molti film. Tra questi Uova di garofano, 1992, L’uomo proiettile, 1995, La ragion pura, 2001. Film che lui quasi da solo scriveva, girava, montava, distribuiva e proiettava quasi esclusivamente all’Azzurro Scipioni. Ma è davvero sterminata la sua attività di cineasta come autore, regista, documentarista, produttore e montatore di film cruciali, tra cui I pugni in tasca, 1965, e Il gabbiano, 1977, di Marco Bellocchio, Grazie zia, 1968, di Salvatore Samperi, Antonio Gramsci – I giorni del carcere, 1977, di Lino del Fra. Per non escludere il Giardino delle delizie, suo film rivelazione e scandalo del 1967, che fu inviato all’Expo Universale di Montréal. Ogni storico, inoltre, non può prescindere dallo sterminato archivio di immagini che vanno sonno il titolo di Cinegiornale del Movimento Studentesco.

Chiudendo l’Azzurro Scipioni si chiude la possibilità d’incontro e testimonianza diretta con questa e moltissime altre pagine della storia del nostro cinema. Un luogo davvero di culto, niente di più spirituale per delle mura appartenenti a un ordine religioso. Quando esse diventeranno l’ennesimo posto di spaccio merci o food,  allora sì che esse saranno violentemente stuprate, desacralizzate. Silvano Azzurro, quale fusione intima tra persona e luogo, invece rispettava in modo ineffabilmente sublime la superiore sacralità esistenziale dell’animo e del pensiero attraverso il grande cinema d’arte. Proprio per questo una cosa è certa: non si potrà mai chiudere il sorriso dell’Azzurro Silvano.

di Riccardo Tavani

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