La scrittrice Nadeesha Uyangoda ci parla di un razzismo che è anche mediatico

Sono una giovane italo-cingalese, ho collaborato con Yalla Italia, a Milano, un progetto pionieristico che ambiva a dare spazio e protagonismo alle seconde generazioni anche nel campo della comunicazione.

Il mio nome? A volte credo non sia importante il mio nome, dove sono nata, dove vivo e ancor meno il colore della mia pelle. Non dovrebbero essere queste informazioni a discriminarmi. Vorrei essere valutata e giudicata per quello che sono, per la mia onestà, per ciò che so fare. Però so che questi dati sono importanti. Terribilmente importanti. Sono fondamentali.

E allora eccomi qui, mi presento a voi, che leggete, soppesate, sentenziate, assolvete o condannate.

Il mio nome è Nadeesha Uyangoda, ho 27 anni, sono nata in Sri Lanka e cresciuta in Brianza, mi sono laureata in Giurisprudenza, ma continuo a frequentare i luoghi della comunicazione, attingendo al mio vissuto personale, ma anche riflettendo e confrontandomi con altri sia in Italia che all’estero. Non senza un pizzico di provocazione.

Non a caso il mio recente libro si intitola “L’unica persona nera nella stanza”, dove la nera sarei io ma anche tutti i “non bianchi d’Italia”.

La razza è un concetto difficile da cogliere, pur non avendo fondamenti biologici produce grossi effetti nei rapporti sociali, professionali e sentimentali. La razza in Italia non si palesa fino a quando tu non sei l’unica persona nera in una stanza di bianchi. E quell’unica persona è in realtà una moltitudine in parte sommersa, sotterranea. Quell’unica persona è chi si è sentito dire troppe volte che «gli italiani neri non esistono»: lo gridano negli stadi, lo dice una certa politica, sembrano confermarlo le serie tv, la letteratura, i media. In un certo senso è persino vero: gli italiani neri non emergono, non si vedono negli ambienti della cultura, nei talk show e nelle liste elettorali. O meglio, in quei luoghi esistono ma solo come oggetto del discorso, quasi mai come soggetto. La loro presenza è ridotta alla riforma della cittadinanza, ai casi di razzismo, all’«immigrazione fuori controllo», ai barconi, all’«integrazione».

Eppure ancora oggi continuo a riflettere su temi e sfide come quelli dell’identità e del razzismo, dell’integrazione e della cittadinanza, diventati centrali in una società sempre più multietnica, multiculturale e multireligiosa.

Si, qualcuno mi dice che è molto riduttivo mettere tutto su un piano di comunicazione che si basa sui “bianchi” e i “neri”.

È una questione di linguaggio. Che però dice anche la limitatezza del pensiero e del dibattito in corso in Italia. In ambito anglosassone, ad esempio, hanno una varietà molto più ampia di parole ed espressioni per definire le persone appartenenti a minoranze etniche, anche perché da più tempo si confrontano con i temi della multietnicità e del multiculturalismo.

Nel mio libro dico che ho cominciato a scriverlo quando ho smesso di fuggire dalla razza e questa è stata recepita come un’espressione forte.

Non intendevo la razza in termini biologici, ma quell’insieme di riferimenti culturali, pregiudizi, stereotipi o comportamenti sociali, anche legati al colore della pelle, che hanno effetti sulle nostre vite. In Germania hanno addirittura tolto il termine razza dalla Costituzione. E qualcuno vorrebbe farlo pure in Italia. Ma non è cancellando un termine che si affronta e tanto meno si risolve il problema.

Qualcuno mi chiede se il razzismo esiste. Mi sembra una domanda così sciocca, così ovvia, talmente evidente che mi sento presa in giro. Poi rifletto. E la cosa più strana è che forse, per chi non lo ha vissuto sulla propria pelle, non esiste. O forse si preferisce non vedere, come tante cose nella vita.

Ciò che non ci riguarda non desta la nostra curiosità né la voglia di documentarsi, non c’è l’interesse di frugare tra le notizie, di sapere, apprendere, capire, dubitare, ragionare. Ecco. Ragionare, pensare con la propria testa, avere una propria idea, uno spirito critico. Già questo sarebbe il motore del mondo.

Ebbene, il razzismo esiste. Si. Lo confermo.

Esiste a vari livelli, più o meno espliciti, nella società come nella politica, nelle istituzioni o nella burocrazia. E rende, ad esempio, particolarmente difficoltosi i percorsi per ottenere la cittadinanza. L’antirazzismo, a mio avviso, dovrebbe includere anche la battaglia per la riforma della legge sulla cittadinanza.

La volete sapere una cosa?

Io non ho la cittadinanza italiana perché non voglio che mi sia “concessa”.

Io sono italiana, anche se non ho nel sangue generazioni di italiani. Ma la cittadinanza non può essere solo una questione di ius sanguinis. Per questo spero in una nuova legge che ci riconosca come cittadini italiani, con tutti i diritti e i doveri che ciò comporta, perché io, come tanti altri, lo siamo a tutti gli effetti.

Fateci caso voi, voi che leggete, soppesate, sentenziate, assolvete o condannate. Gran parte della narrazione sugli stranieri in Italia si riduce al racconto degli sbarchi e dei flussi migratori. Raramente si affrontano le dinamiche razziali a partire da chi è cresciuto qui, ha studiato, lavora e partecipa alla vita sociale e culturale pur sentendosi invisibile. Perché siamo invisibili finché non si vogliono avere occhi per vedere ed andare oltre.

Per questo, ogni iniziativa e ogni gesto sono importanti per provare ad andare oltre pregiudizi e stereotipi che, a volte, sono reciproci. E per scardinare anche il razzismo inconsapevole.

Poi c’è il fenomeno mediatico. Internet e i social media sono spesso amplificatori di odio anche razziale ma possono essere anche strumenti efficaci per offrire a tutti la possibilità di esprimersi. In quest’ultimo anno, in particolare, ho visto molti italiani di colore che hanno creato reti, iniziative o semplicemente hanno avuto la possibilità di esprimersi più liberamente, promuovendo maggiore consapevolezza su questi temi. Quanto questo attivismo sia performativo lo vedremo sul lungo periodo. Dopodiché, però, occorre fare pressione perché le cose cambino anche nei luoghi di potere.

Il mio nome è Nadeesha Uyangoda, ho 27 anni, sono nata in Sri Lanka e cresciuta in Brianza. Ora che mi sono raccontata collocatemi voi dove lo riterrete opportuno, classificatemi, etichettatemi come meglio vi aggrada.

Finché non cambierete anche voi e la vostra apertura verso un mondo sempre più cosmopolita, allora io continuerò a sentirmi ancora come “L’unica persona nera nella stanza”.

di Stefania Lastoria

 

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