La rivoluzione digitale

Da tempo stiamo vivendo una «rivoluzione digitale», un cambiamento profondo nel nostro modo di agire e di pensare dovuto all’incidenza sempre più massiccia delle nuove tecnologie. Esse facilitano la conoscenza, la possibilità di inclusione e l’accesso alle informazioni e al tempo stesso rendono comuni forme di esperienza in cui il tempo diviene disarticolato, puntiforme, scollegato, esploso[1].

“Un paesaggio etico non regolato”, che genera enorme confusione senza mai essere sottoposto ad alcun esame di veridicità. Il rischio che si corre in questo modo, però, è quello di far passare tutto come accettabile, “ci rassegniamo ad un mondo in cui nulla ha valore”[2].

Ma la globalizzazione, secondo Gardner, è qualcosa di così imponente che alla fine spingerà i singoli cittadini del mondo a cercare una verità, una bellezza e una bontà che vada oltre i confini individuali. Si augura che “la compresenza di postmodernismo e media digitali, ironicamente, possa creare la possibilità di una seconda età dell’Illuminismo”.[3]

In sostanza, l’autore ci vuole dire che i singoli uomini sono importanti all’interno delle vicende umane e possono avere un ruolo decisivo nel destino dell’umanità, anche se al momento la situazione sembra non portare a nulla di buono; paghiamo la capacità di seguire contemporaneamente più cose con una perdita effettiva di concentrazione e di attenzione. Abbiamo difficoltà a comprendere testi lunghi e, soprattutto, narrazioni complesse. Solo tre italiani su dieci hanno gli strumenti per orientarsi compiutamente nel mondo attraverso la lettura e la scrittura. Il cinque per cento dei nostri connazionali è praticamente analfabeta e il trentatré per cento fatica anche a leggere frasi semplici. Il libro non è più un ascensore sociale e il prestigio del libro è diminuito rispetto al passato. Le cause sono certamente tante e, tra queste, la debolezza del sistema scolastico, la sottovalutazione operata delle classi dirigenti nei confronti dell’istruzione e del fatto che dove non c’è cultura non c’è innovazione, non c’è creatività, non c’è cambiamento. Inoltre, l’impoverimento e la banalizzazione del discorso pubblico e l’incapacità dei media di mediare. Spesso i mezzi di comunicazione di massa sono uno specchio deformante che crea un solco tra la realtà e la sua percezione e influenzano il concetto di limite, perché mettono facilmente in contatto i singoli con la comunità, in tutto il globo e in tempo reale, cambiando però anche gli orizzonti mentali e affettivi delle persone.

In un contesto come questo il confine diventa perciò provvisorio si sposta con i soggetti al pari dell’orizzonte, chiude ed apre allo stesso tempo, è fatto per essere sormontato. Questo è il senso più denso della parola “progresso”[4], oggi spesso impropriamente sostituita con “innovazione”, slogan dei sistemi di potere, sia economici che politici, che tendono a mascherare decisioni, interessi e privilegi di natura storica come fatti naturali. Poiché le nuove tecniche e le nuove procedure, solo apparentemente neutrali, vengono messe al servizio di decisioni non trasparenti, il termine “innovazione” finisce per delineare un mutamento condizionato ideologicamente e gerarchicamente, funzionale alla conservazione dei rapporti di produzione.

In questa forma, l’innovazione non muta la struttura socio-politica, ma al contrario la riproduce allontanandosi dall’idea stessa di progresso.[5]

di Francesca Mara Tosolini Santelli


[1] Cfr. Adriano Fabris, Il tempo esploso. Filosofia e comunicazione nell’epoca di Twitter, Bologna, EDB, 2015.

[2] Cfr. Howard Gardner, Verità, bellezza, bontà, Educare alle virtù nel ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano, 2011.

[3] Ivi, pag. 195.

[4] Cfr. Remo Bodei, Limite, Il Mulino, Bologna, 2016.

[5] Cfr. Carlo Altini, Le maschere del progresso. Ascesa e caduta di un’idea moderna, Bologna, Marietti 1820, 2018.

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