Il partito della tecno-scienza

Mettiamo in relazione due recentissimi avvenimenti, per quanto apparentemente distanti l’uno dall’altro. Ci riferiamo alla maggiore apertura delle attività decretata dal governo italiano, e alle elezioni parlamentari in Albania di questo fine aprile.

La riapertura, decretata dal governo Draghi sulla scorta di un non meglio precisato rischio calcolato, ha innescato un immediato scontro tra i politici che l’hanno promulgata e alcuni eminenti virologi, tra i quali i professori Andrea Crisanti e Massimo Gallo. Questi due studiosi, in particolare, hanno detto che si tratta di una decisione esclusivamente politica,non fondata su alcuna base scientifica, tanto che il rischio è stato pericolosamente “calcolato male”. In effetti, i dati sui quali sarebbe stato valutata tale alea non sono mai stati comunicati a nessuno, neanche a giornalisti e ricercatori statistici che li hanno richiesti.

Il calcolo, infatti, più che di natura sanitaria è stato di carattere politico-sociale. La pressione delle categorie economiche – evidenziato dalla pentola bollente dei ristoratori – ha finito per prevalere su tutti i criteri di cautela sanitaria. Tanto più che queste categorie – in maniera convergente – sono ben rappresentate sia dentro la maggioranza parlamentare, sia all’interno dell’opposizione. E questo si erge come un nodo insolubile. I parlamenti sono costituiti da formazioni politiche che rappresentano o sono diretta espressione di forze economico-sociali. Per quanto fondata su una incontrovertibile base scientifica, nessuna misura tecnica – medica o di qualsiasi altro tipo – può imporsi contro la volontà di tali forze che esprimono trasversalmente i loro rappresentanti politici dentro i parlamenti. È proprio per questo che l’economia – anch’essa una scienza, sebbene triste – si è prevalentemente chiamata economia politica, ossia imprescindibile dalla realtà politica, istituzionale o di potere fattuale che sia.

Si profilerebbe dunque un conflitto tra e le decisioni politiche, sottoposte ai controlli delle procedure politiche,  e quelle scientifiche, oggettivamente non discutibili? O la politica, la democrazia si presenta essa stessa come un mezzo, un veicolo usato, in disuso, abusato, tanto da non farcela più a procedere attraverso i suoi più alti riti parlamentari?  E di dover anche essa ricorrere ai nuovi sistemi messi a disposizione dalla scienza e dalle sue applicazioni tecnologiche.

Veniamo dunque al secondo avvenimento. Le elezioni di questi giorni in Albania. Il premier uscente, Edi Rama, è riconfermato con la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari: 74 su 140. Nei giorni immediatamente precedenti all’apertura delle urne è però emerso uno pestifero bubbone, uno scandalo tecno-social, detto della profilazione. Il premier e il suo Partito socialista controllavano segretamente i profili di circa un milione di elettori sui tre milioni e mezzo di votanti. Accanto a ogni profilo erano riportati i dati più intimi su carattere, abitudini, condizioni economiche e familiari, bisogni urgenti, multe, tasse non pagate, altri elementi critici. Il database prende il sinistro nome di patronazhist, anche se in albanese significa qualcosa come mecenatismo. Accanto a ogni profilo c’è il nome del militante del partito che lo ha curato e i mezzi da lui indicati per convincere al voto a favore del premier: favori e ricatti, minacce. Possiamo pensare che sia una vicenda minore, confinata a una realtà periferica come quella albanese. È in realtà qualcosa già da tempo in atto su scala molto più vasta. Il film documentario The Great Hack (del quale abbiamo qui scritto nel luglio del 2019) denuncia che metodi simili sono stati già usati da Cambridge Analytica, e con successo, non solo nelle elezioni a Trinidad, Togo e Tobago, ma soprattutto in quelle in Brasile, in Usa, e per la Brexit, in Inghilterra. La profilazione tramite i grandi social consente l’accesso fino a cinquemila dati per ogni singola persona, permettendo una manipolazione, anzi una torsione degli orientamenti di massa prima neanche immaginabile. Assistiamo, infatti, a vere e proprie bestiali macchine di propaganda, di fabbricazione di consensi e fake news, usate quotidianamente dai politici in tutto il mondo. Parafrasando il titolo di un vecchio spaghetti-western potremmo dire… continuavano a chiamarla Democrazia. E d’altronde anche l’economia sfugge ormai del tutto a procedure e regole di controllo democratico, sempre in forza delle possibilità offerte dalla tecnologia informatica di scavalcare confini nazionali, continentali e legislativi.

L’ascesa della Tecnica è dunque direttamente proporzionale al declino della Politica. Pure essa deve ancora sottostare ai riti di quest’ultima che ne ostacolano il pieno sviluppo nella soluzione dei grandi problemi che mettono a rischio la sopravvivenza stessa del pianeta. La scienza deve quindi trovare una sua forma di espressione politica? Farsi – a somiglianza dell’economia – scienza politica? Esprimere direttamente un proprio partito o gruppo parlamentare? La questione può apparire al momento paradossale, ma non lo è affatto alla luce del continuo scontro sulle misure concrete da adottare su una cosi cruciale vicenda esistenziale umana. Assistiamo oggi sì a una presa di distanza, ma anche a un arrestarsi degli scienziati sul confine per loro ancora inviolabile della politica. Ma fino a quando questo può durare? Venendo poi i tecnici, gli scienziati a trovarsi nella condizione di essere adoperati,  usati come meri mezzi passivi per mettere riparo ai danni del complesso politico-economico non più in grado di governare il mondo. Un loro diretto ingresso nell’agone istituzionale permetterebbe anche di chiarire se la loro è una concezione meramente tecnocratica della società, o non comporterebbe invece anche il compito di delineare una inedita Costituzione sociale-ambientale per una neo scienza architettonica, ordinatrice, così come Aristotele definì a suo tempo l’arte della politica.

di Riccardo Tavani

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