Milva, uomini addosso

Maria Ilva Biolcati, in arte Milva, è morta a Milano il 23 aprile scorso. Era nata a Goro, in provincia di Ferrara nel 1939. Nella sua lunga carriera ha esplorato canzoni popolari, canzoni d’autore e teatro mescolando con intelligenza e grande senso di modernità, pop e musica colta, teatro e balera.

Abbiamo perso un’artista di indiscusso valore.

Fu a Sanremo del 1993 che Milva portò sul palco dell’Ariston Uomini addosso, una canzone scritta appositamente per lei da Valerio Negrini e Roby Facchinetti dei Pooh. Aveva allora 53 anni.

Per il pubblico italiano degli anni novanta, la Pantera Rossa della musica italiana, sembrò subito la donna sbagliata nel posto sbagliato: una vecchia gloria con movenze da sciantosa, si apprestava ad aprire il suo pezzo sanremese con le parole: “Hai le braghe che scoppiano”.

Tanto bastò a far scalpore, a risvegliare un misto di intrigo, di desiderio indecente, di fantasie erotiche, di immagini peccaminose insieme a quel saldo valore di perbenismo che doveva prendere il sopravvento per ovvie ragioni. E mentre lei cantava ammiccando alla telecamera, guardava dritto nelle case degli italiani appisolati davanti alla TV che finalmente mandava in onda il tanto atteso Festival, mentre veniva “giudicata” di quel troppo lei cantava con il cristallo della sua voce solo leggermente sbeccato, e le parole erano queste:

Mi hai riempita di figli tuoi
Mi hai comprata nei bar
Mi hai sposata davanti a dio
Uomini addosso a questo
Corpo mio

Neanche a dirlo, fu quello il Sanremo in cui l’esordiente Laura Pausini stravinceva con La solitudine, la storia romantica di un’innocente amore adolescenziale cantata da una ragazzina con l’ugola d’oro. Era anche il Sanremo in cui un giovane Nek, portò la canzone In te, un testo antiabortista le cui parole erano: “Lui vive in te, si muove in te con mani cucciole”.

Insomma un Sanremo in cui l’audace Milva sembrava a confronto dei sopracitati artisti, essersi lanciata a capofitto nella più bieca pornografia dei sentimenti.

Eppure Milva, non compresa, portava una canzone teatrale, un po’ Kurt Weill e un po’ Astor Piazzolla, in cui descriveva il corpo delle donne come un campo di battaglia. Voleva solo denunciare sul palco di Sanremo la cultura dello stupro e cantava le donne di tutto il mondo, divise tra sante e puttane, che possono sperare di sopravvivere solo se capaci di vendersi a un uomo.

Quella Milva così esplicita e così troppo femminista non piacque: Uomini addosso, nonostante un’impareggiabile interpretazione, fu eliminata e non arrivò neanche alla serata finale. Fu scritto e detto di tutto, che era troppo vecchia per parlare di sesso, che era patetica, troppo languida, provocante, eccitante per la sua età. Ma su quel palco, nel 1993, c’era una Milva geniale che era riuscita a soli 53 anni d’età, a rileggere il suo passato d’interprete brechtiana in chiave pop; una Milva matura ma tutt’altro che appannata.

L’lp Uomini addosso, uscito con poco clamore sulla scia dell’insuccesso sanremese, è una specie di concept album squisitamente pop sull’autodeterminazione, con canzoni già note e inedite scritte, tra gli altri, da Pooh, Paolo Conte, Carlo Marrale dei Matia Bazar e Cristiano Malgioglio, scelte con grande attenzione.

La foto di copertina, scattata da Guido Harari, mostra Milva in body nero e calze autoreggenti, coperta solo da un trench in vinile semiaperto, in quella che nell’immaginario comune è l’uniforme della prostituta. Anzi, della puttana. Ma lo scatto di Harari è un’immagine spavalda e gioiosa, e soprattutto è il ritratto di una donna adulta, consapevole e indipendente.

In questo lungo viaggio nell’autodeterminazione femminile che è Uomini addosso c’è anche una canzone che con il lessico di oggi potrebbe addirittura essere definita transfemminista.

Pierre è un vecchio pezzo del 1976 dei Pooh, una canzone gay, sicuramente coraggiosa per i tempi, che ricorda certe vecchie chanson francesi in cui la vita dei maschi omosessuali, o di travestiti e trans, è descritta con toni malinconici e vagamente pittoreschi. In Pierre un uomo incontra un vecchio compagno di scuola di cui ricorda le movenze effeminate (e naturalmente lo sguardo triste) e scopre che ora è donna. Lei abbassa lo sguardo perché si vergogna di essere stata riconosciuta come Pierre e lui, bontà sua, dice tra sé e sé che rispetta la sua scelta e tira dritto per la sua strada.

E Milva, che era anzi è, un’interprete troppo intelligente per fermarsi alla superficie delle cose, della vita o di una canzonetta che trattava per allora un tema decisamente scabroso, spoglia Pierre di qualsiasi intento patetico riuscendo a darci l’idea di una persona nata donna, che con empatia e senza giudizi si specchia nello sguardo di un’altra persona che donna ha scelto di diventarlo. E ci riesce senza cambiare una sola virgola di un testo scritto nel 1976.

Forse Milva, la Pantera Rossa della musica italiana, è sempre stata “oltre”, in quell’oltre che solo poche persone possono vedere, sentire dentro ed apprezzare. Ebbene si, abbiamo perso una strepitosa cantante, un’impareggiabile artista ma soprattutto una meravigliosa donna.

di Stefania Lastoria

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