Nomaland: non smetteremo mai di rivederci lungo la strada

Nomadland, Terra dei nomadi, ma anche Terra nomade. Come se la Terra fosse non tanto il luogo fisico passivo, quanto il vagare stesso dei senza fissa dimora che la percorrono. Si sposta con essi, è nomade dentro essi. Film vincitore del Leone d’Oro alla Mostra di Venezia 2020, e delle tre principali statuette agli Oscar 2021, sta mietendo un’altra impressionante messe di riconoscimenti nei più importanti premi internazionali. Frances McDormand, l’interprete principale, migliore attrice agli Oscar, se lo è prodotto direttamente, acquistando da Jessica Bruder i diritti del libro da cui è tratto, e affidando poi la regia alla cinese Chloé Zhao.

Zhao è una regista, autrice, montatrice, nata nel 1982 a Pechino. Ma è anche una produttrice: i soldi per produrre i propri film ce li mette e li rischia sempre anche lei. Ha solo due precedenti opere alle spalle: Songs my brothers taught me, del 2015, e The rider – Il sogno di un cowboy, del 2017. In particolare quest’ultimo ha impressionato Frances McDormand. Lo stile di Zhao, infatti, è immediatamente incisivo, poetico proprio nella sua ruvidezza, scarnezza, nella sua capacità di avvolgere insieme luoghi e persone. Soprattutto se sia l’umano, sia l’ambientale sono ai margini, fuori, lontano dai paesaggi monetari e cementizi urbani. Come se, invece, in questi spazi dimenticati si svolgessero vicende ancora autentiche. È esattamente la materia di Nomadland

Fern non ha più l’età per un nuovo lavoro stabile e sicuro. Neanche quella per ottenere una pensione decente. La fabbrica in cui lavorava fin da ragazza con suo marito a Empire, Nevada, ha sbarrato definitivamente le porte ai suoi dipendenti, lasciandoli in una disperazione economica senza fine mai. Suo marito, da tempo malato, dal letto d’ospedale finisce direttamente a essere solo un nome su una lapide. Lei vende quello che gli rimane nel vecchio garage della piccola casa in affitto, carica e attrezza il suo furgone come un domicilio nomadico e va. Diventa gli spazi che percorre e i posteggi in cui sosta. Siamo davvero in una terra di confine, in una frontiera interna vuota, che richiama a quella della tradizione pioneristica d’origine yankee. Senza più carri e cavalli, ma van, furgoni in perenne spostamento, senza una meta precisa. Lungo una circonferenza nella quale il sogno americano dissemina i detriti della sua definitiva disillusione. Non incontriamo, infatti, pellerossa e neri (a parte un’anziana donna), sia perché per questi quel sogno è stato sempre intriso di amarezza per i violenti soprusi patiti, sia perché proprio questa condizione ha fatto dei loro legami familiari e di comunità una imprescindibile necessità esistenziale. Il popolo di acciaccati neo cowboy motorizzati bianchi, però, non cerca più l’oro, né terre da togliere alle tribù originarie, recintare per stabilirvisi, come farmer, coltivatori, allevatori, sfruttatori di braccia nere. Sono fuori da tutto questo, fuori dalla tirannia del dollaro, dell’auto fagocitazione consumistica. Hanno ancora sprazzi di natura vergine  ancora non imbastardita. Hanno parole diverse, una loro diversa filosofia. Campano di lavoretti saltuari, dell’aumento di pacchi da spedire  e di personale avventizio nel periodo di Natale dentro i magazzini Amazon. Le cose che gli occorrono se le scambiano, se le regalano, si assistono a vicenda. Si lasciano e si rincontrano lungo la strada, in un altro parcheggio a sud-ovest di nient’altro che la loro libertà di pura, incerta sopravvivenza.

Frances McDormand (Fern) e David Strahairn (Dave) sono gli due attori professionisti. Tutte le altre facce e voci che appaiono sullo schermo sono le persone reali che costituiscono questo popolo scolpito dal dolore della loro precedente esistenza, e che ora fa viaggiare dentro di sé i sopravvissuti paesaggi mozzafiato dell’antica terra vergine. La forza delle inquadrature fisse o in movimento, delle panoramiche dà forza anche alla drammaticità del tema che si acutizza soprattutto nella seconda parte del film: quella tra la tentazione di fermarsi di nuovo sotto un tetto fisso contro la scelta – non più indotta, costretta – del furgone come permanente nomadic patria. Tanto dove scappano: morti o vivi ci rivediamo lungo la strada, come dice una delle anime guida di questo popolo, parlando di suo figlio scomparso.

di Riccardo Tavani

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