Manuela Dviri, una delle 50 donne che hanno cambiato la storia di Israele

Manuela Vitali Norsa, coniugata Dviri, è nata a Padova il 13 gennaio del 1949, è una giornalista, scrittrice, blogger e insegnante naturalizzata israeliana. Trasferitasi da Padova a Tel Aviv in Israele nel 1968, si è sposata un israeliano. Laureata in letteratura inglese e francese all’Università Bar-Ilan, ha iniziato la carriera professionale come insegnante e in seguito ha lavorato all’Istituto di Scienze Weizmann nel campo delle relazioni internazionali. La sua vita è stata segnata da una profonda perdita quando il 26 febbraio 1998 il figlio Yonathan, che prestava servizio nell’esercito israeliano, fu ucciso durante un conflitto con Hezbollah. A lui Manuela Dviri ha dedicato l’opera teatrale Terra di latte e miele, messa in scena da Ottavia Piccolo per la regia di Silvano Piccardi. Oggi vive dedicandosi alle sue tante passioni dividendosi tra Italia e Israele.

Mentre era ancora in corso il conflitto nel Libano, durante la settimana di lutto per la morte del figlio, Manuela esprime tutto il suo dissenso alla politica del governo e rilascia le prime dichiarazioni sulla inutilità e la stupidità di una guerra condotta fuori dai confini del paese pubblicando tre infuocate lettere di protesta indirizzate all’allora primo ministro Benjamin Netanyahu.

Pochi mesi dopo lascia il lavoro all’Istituto di Scienze Weizmann per dedicarsi completamente alla sua personale campagna per la vita e contro la guerra, chiedendo pubblicamente il ritiro dell’esercito israeliano dal territorio libanese. La campagna, ricordata in Israele come quella delle “Quattro Madri”, comprende diverse azioni di protesta compreso un sit-in di quindici giorni davanti alla Residenza del Presidente d’Israele Ezer Weizman.

La campagna contro la guerra in Libano è coronata dal successo. Nel 1999 Ehud Barak, a capo dell’opposizione, dichiara che se eletto, farà ritirare l’esercito dal Libano, cosa che puntualmente avverrà l’anno seguente.

Sono questi gli anni in cui diviene nota in Israele fino ad essere segnalata dal popolare quotidiano Yediot Aharonot come una della 50 donne che hanno più influito nella storia dello Stato di Israele.

Raggiunta al telefono rilascia una breve intervista, parla di tutto un po’, del suo ultimo libro Un mondo senza noi. Ed è proprio in questo libro che scrive:

La “mia” Shoah, quella di molti ebrei italiani, è mia madre ragazzina che non trova il suo nome nel tabellone dei voti a scuola, perché gli ebrei sono a parte. Che non può ricevere un otto, perché i voti degli ebrei non possono superare quelli degli “ariani”.

È mio padre, che fino alla morte conserva il telegramma dell’amico Bruno, che gli dice di usare la sua casa, in caso di bisogno.

La mia Shoah sono bambine che spariscono da scuola per sette anni e quando tornano nessuno chiede loro dove sono state.

Prima delle leggi razziali, prima della Vergogna, mia madre, mio padre, i nonni, gli zii, i cugini, erano normali cittadini italiani. Finché non divennero “di razza ebraica”, e persero il lavoro, la dignità, la sicurezza, e infine rischiarono anche la vita: la scelta fu scappare, oppure morire. Qualcuno fu deportato. Qualcuno non tornò. Poi, mio padre e mia madre si conobbero in un campeggio ebraico, nel dopoguerra, e riconquistarono la “normalità”. Grazie a loro sono qui. A raccontare. Di loro e degli altri”.

Le viene fatto notare che leggendo il libro, si incontrano in un equilibrio quasi invidiabile radicamenti, voli pindarici, osservanza e pace: sono caratteristiche più sue, cioè dell’autrice o le riscontra nella maggior parte delle persone con discendenza ebraica?

E Manuela risponde che non le riconosce neanche in se stessa e che semmai sono impressioni sue, solo sue, non degli ebrei in generale. Anche parlando di Primo Levi e del suo aforisma in cui dice “Ognuno è ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele”, sostiene che pur amando lo scrittore, l’uomo Primo Levi, pur adorandolo letteralmente non si trova d’accordo su questo punto e su molte delle cose dal lui esternate. Semplicemente perché la sua conoscenza del Medio Oriente è un po’ teorica, non essendoci mai stato, e ciò che succede tra israeliani e palestinesi a suo avviso, appartiene letteralmente ad un’altra storia.

“Per ciò che riguarda il mio libro – continua Manuela Dviri – non avevo un disegno ben preciso quando ho iniziato a scriverlo, tranne quello di raccontare una storia che potesse imprimere un segno nel lettore, lasciandolo diverso da quello che era quando ha iniziato a leggerlo, con un’emozione in più, una conoscenza in più, magari da approfondire in base alle sensibilità personali. Scrivendolo credo di essere diventata anch’io diversa da quella che ero all’inizio, di avere imparato tanto  e avere provato fortissime emozioni. Ho trovato un patrimonio inestimabile: sia genetico, che emotivo.

A volte mi chiedo se possono esistere più fattori, in seguito a cui qualcosa scoppia, qualcosa muore, qualcosa ci dilania, qualcosa rinasce e finalmente la pace possa trionfare, come nelle fiabe.

Riesco ad immaginare una situazione del genere solo dopo un’immane catastrofe. Ma non ne sono sicura. Forse e dico forse, solo dopo qualcosa di simile gli esseri umani riuscirebbero a vivere in pace tra di loro. Forse. Dico ancora forse. Perché le fiabe, purtroppo, sono solo fiabe.

Perché un simile sogno si avveri ci vorrebbe solo la volontà e lo sforzo di farlo.

Ma diciamo anche che il genere umano ci ha insegnato a non farci illusioni, io vedo ovunque un egoismo imperante che continua a farci pensare ed agire come singoli e non come parte di un unico, solo mondo a cui tutti apparteniamo.

E senza questo senso di appartenenza collettivo, senza questa necessità ancora di ghettizzare, etichettare, differenziare, distanziare uomini e terre, non si potrà andare mai da nessuna parte.

Spero di sbagliare.

Mi auguro con tutto il cuore di elaborare un pensiero errato.

di Stefania Lastoria



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