Elogio del camminare: monte Camicia

“Adesso, credo, capiamo almeno un poco perché il buddista si reca in pellegrinaggio su una montagna. Il viaggio stesso fa parte della tecnica attraverso cui si rivela la divinità. È un viaggio dentro l’Essere; perché mentre penetriamo in profondità nella vita della montagna, penetriamo anche nella nostra. Per alcune ore siamo oltre il desiderio. Non è estasi, non è quel balzo fuori dal sé che rende, l’uomo o la donna, simile a un Dio. Noi non siamo al di fuori di noi ma dentro di noi. Siamo. Conoscere l’Essere. È questa la grazia che ci viene accordata dalla montagna”.

Sono le sei del mattino, puntuale come un orologio svizzero, Omero arriva sotto casa con la sua Volvo E40 Bianca. Cambio automatico e musica prog. Partiamo per Campo Imperatore con “Impressioni di Settembre” della Premiata Forneria Marconi. Al ritorno, le Orme con “Gioco di bimba”.

arriviamo a fonte Vetica, sono le 8.20, prepariamo gli zaini, il tempo è incerto, il meteo dice coperto con lievi piogge. C’è un timido vento, freddo, ma piacevole. Alle 8.40 si parte. Attraversiamo la pineta, nel tratto raso al suolo dalla valanga che ha sradicato centinaia di pini e abeti. Stiamo facendo una pre-scout in preparazione del “Centenario”, il percorso è lungo, ci sono più di 900 metri di dislivello da superare. Incontriamo altri escursionisti. Molti domenicali, con scarpe e equipaggiamento non adatto: Omero, molto umilmente, dispensa alcuni consigli per evitare che si possano far male. Riprendiamo a salire, coppie di corvi imperiali volteggiano sopra di noi, sulle balconate ci sono nove camosci, con il maschio alfa che li sovrasta, vigila sul suo branco. Proseguiamo, tra stelle alpine, che qui sono fantastiche, bianche, vellutate, con grandi petali dal riverbero della luna. I crochi son di un colore blù elettrico, in contrasto netto con il giallo splendente dei fiori d’altura. La salita si fa sentire, costeggiamo un nevone, ghiacciato, che si inerpica ripidamente verso l’affaccio sulla parte nord del Camicia. Una verticale di più di 1.300 metri che da Castelli si impenna verso il cielo. Avanziamo osservando la bellezza dentro cui siamo parte vivente, completamente avvolti da un manto roccioso che ci accoglie con  benevolenza,  in tutta la sua rude spigolosità. Ci guardiamo e pensiamo che il Camicia non ti regala niente, anzi devi conquistartela la sua cima, senza rimostranze, con amore, con passione, senza lamento alcuno.

Capivamo che la montagna non è solo oleografia e luoghi comuni: elevazione, purezza, valore. È dura, ma richiede di essere amata.

La montagna è generosità, ma è anche un selfie per imprimere le nostre risate, per sentirsi ancora più parte di una magia che non finisce in vetta, ma ricomincia e ricomincia ogni volta che calzi gli scarponi. Il Camicia è lì, con i suoi 2564 metri s.l.m, sembra imprendibile, ma ci siamo quasi.

L’ultima impennata ci mostra una parete ghiacciata con più di due metri di neve, da attraversare tutta. Una parete ripida, molto esposta. Dobbiamo ripiegare verso sinistra per evitare rischi in caso di caduta. Ricalchiamo le orme di coloro che sono passati prima di noi, ci faranno da scalini. Con molta cautela iniziamo a salire. Ci teniamo verso valle, ci allontaniamo dalla parete esposta. Camminiamo in sicurezza. Lasciamo orme sulle orme.

“Gli uomini sono animali, e come tutti gli animali anche noi quando ci spostiamo lasciamo impronte: segni di passaggio impressi nella neve, nella sabbia, nel fango, nell’erba, nella rugiada, nel muschio, nella roccia. Lasciamo tracce, orme sulla roccia. È facile tuttavia dimenticare questa nostra predisposizione naturale, dal momento che oggi i viaggi si svolgono per lo più sull’asfalto, sul cemento, in macchina, sostanze su cui è difficile lasciare tracce, orme, impronte”.

Noi, lasciamo impronte, sulla neve, sulla roccia, mentre si avviciniamo la Camicia. Mentre con attenzione attraversiamo la parete ghiacciata, ripida, prima della vetta. Piove. Inizia a piovere, il meteo lo aveva previsto. Apriamo gli zaini, indossiamo il guscio anti pioggia e arriviamo sulla croce del Camicia. C’è vento. L’aria è fredda. Ma il panorama lascia senza fiato. La sensazione di meraviglia è qualcosa di immenso che si fonde con l’orizzonte senza fine del mare Adriatico avvolto in striature di azzurro. Qui, a 2564 metri s.l.m ci si sente in compagnia del vento che qui mostra la propria forza, spingendo le nubi a mare, aprendo nuovi orizzonti e nuova voglia di proseguire con l’animo incantato da tanta naturalezza. Qui abbiamo capito che la fretta è inutile con questa bellezza. “Qui, nell’immensità della montagna, qui dove nel suo silenzio ci si può perdere, ma dove il silenzio ancora può sembrare rumore, ecco che possiamo percepire la grandezza del nostro cammino terreno, di chi veramente siamo, percorrendo in verticale gli antichi sentieri in un eterno ritornare, scoprire, ricordare…” perché muoversi negli spazi del Camicia, vibrante energia, come le pietre che portiamo al collo (Omero, corniola e Claudio, giada) significa entrare in contatto con la vera essenza della natura, della montagna e di se stessi, che è contemplazione del creato.

di Omero di Marco e Claudio Caldarelli

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