Anna Pauline Murray, un film per l’attivista dell’eguaglianza di genere

Dopo la prima al Sundance arriva ora in Europa, allo Sheffield DocFest, My name is Pauli Murray di Julie Cohen e Betsy West, una produzione Amazon che vuole porre all’attenzione del grande pubblico una figura rimasta a lungo ai margini della storia nonostante abbia contribuito a sviluppare principi dirompenti in materia di diritti civili e parità di genere e abbia lasciato una marea di scritti in ambito legale, poesie, due volumi di memorie autobiografiche (Proud Shoes del 1956; Song in a Weary Throat uscito postumo nel 1987) e un archivio enorme conservato ad Harvard.

Vediamo allora nel dettaglio chi era Anna Pauline «Pauli» Murray (1910-1985). Avvocata, docente, poeta, prima donna non bianca a diventare prete nella chiesa episcopale, una donna che ha svolto un ruolo pionieristico nello sviluppo di azioni e argomentazioni antirazziste.

Pauli amava le donne e veniva percepita come donna ma era più che altro un «soggetto lesbico», per dirla con Wittig, un’amazzone che sin da giovane si identificava con figure avventurose e al di là del genere: «the dude», «the crusader», «the vagabond», «the acrobat» recavano come didascalia alcuni autoritratti giovanili. Già negli anni trenta aveva tentato una terapia ormonale che la instradasse verso una riassegnazione di sesso mai avvenuta. Forse oggi sarebbe giusto parlarne in termini non binari come fanno alcune delle persone intervistate nel film, tra cui Julie Cohen, co-regista, che utilizza il pronome she.

Lei stessa ci racconta di Pauli Murray e di quanto ricca e pioneristica fosse, delle sue battaglie legali, delle sue lotte per i diritti umani e l’eguaglianza di genere, in anni molto lontani in cui certi argomenti non potevano neanche essere presi in considerazione.

Già alla fine degli anni 40 Pauli è stata arrestata per aver rifiutato di occupare posti riservati alle persone nere nei caffè e sui bus anticipando di un decennio due atti simbolici che hanno fatto storia nelle lotte per la desegregazione.

Era in anticipo sui tempi eppure è poco nota a livello internazionale e persino poco conosciuta negli Usa, un silenzio questo, dovuto a una combinazione di fattori: la sua originalità disorientava, era anomala, difficile da incasellare, fuori dagli schemi, introversa e solitaria. Si è occupata di tante cause ma non le interessava diventare leader di un movimento, non ambiva alla popolarità,

amava “essere” piuttosto che “apparire”; se poteva dare un contributo lo faceva e lasciava poi che altri proseguissero la sua strada, a tutto ciò va aggiunto il suo bisogno di proteggere se stessa e chi le stava accanto. Tenne sempre riservate le sue relazioni con le donne mantenendo anche in quelle un profilo basso.

Negli ultimi anni sono accadute molte cose che hanno permesso di rompere il silenzio. Ad esempio si è compreso che la storia degli Usa, e non solo, non è fatta soltanto da maschi bianchi. Come dice Tina Lu, che oggi dirige il Pauli Murray College a Yale, «se studi la storia, ti rendi conto che non per forza i nomi più noti sono quelli delle persone più innovative o determinanti». Ora siamo alla ricerca di figure che hanno pensato e agito in modo alternativo a quello dominante.

Il movimento Black Lives Matter ha contribuito alla riflessione sulla scrittura della storia non solo desacralizzando personalità un tempo riverite ma anche valorizzandone alcune oscurate.

Pauli è mancata nel 1985 e solo ultimamente c’è stata una sorta di «rinascimento» della sua fama: studi, riedizioni di suoi libri, il New Yorker le ha dedicato un pezzo nel 2017.

Riguardo al film, le registe Julie Cohen e Betsy West raccontano che lo hanno costruito in modo polifonico, selezionando il materiale e facendo scelte molto drastiche perché Pauli era tante cose e aveva lasciato ben 141 scatole di documenti, lettere a chiunque – dalla nonna al Presidente Roosevelt a Eleanor di cui era molto amica – diari, appunti, referti medici propri e dei suoi amati cani nonché una quarantina di ore di audio e video degli anni 70 e 80 in alcuni casi mai digitalizzati.

Tra le testimonianze presenti nella narrazione c’è solo una persona di famiglia, la pronipote Karen, ossia colei che Pauli ha nominato esecutrice testamentaria e custode della sua memoria ed eredità, che non era chissà quale ricchezza ma un archivio da ordinare e consegnare a chi lo potesse conservare come merita. Era la compagna di Pauli, Irene Barlow, a tenere in ordine le sue carte ma dopo la sua morte nel 1973 le cose si sono accumulate in modo disordinato. Ereditando tutto, Karen ha avuto molto da fare ma ha anche scoperto più nel dettaglio che persona straordinaria fosse sua zia.

Il film non ha certo la pretesa di dire l’ultima parola su Pauli ma piuttosto d’invitare a saperne di più, a leggere i suoi libri, con la gioia di imparare senza sensi di colpa ciò che la scuola non ci ha saputo insegnare, con la curiosità di conoscere ed immedesimarsi nel coraggio e nelle forti emozioni di Anna Pauline Murray, affinché tutto ciò che ha saputo conquistare non vada perso. E’ solo un tentativo di farla rivivere per i tanti che mai hanno sentito pronunciare il suo nome. Almeno questo, a Pauli, lo si deve.

di Stefania Lastoria

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