IL DOVERE DI NON OBBEDIRE

Il 26 giugno 1967 moriva a Firenze, dove era nato il 27 maggio 1923,1923, Don Lorenzo Milani.

È stato un prete, anzi un uomo, vicino a Dio e ai poveri.

Non è stato un uomo del Concilio Vaticano Secondo, terminato nel 1965. È stato un prete che aveva anticipato il Concilio con la sua vita, il suo lavoro, i suoi scritti, ma che era morto troppo presto per vederne realizzato il contenuto nelle miserie delle “chiese istituzionali” romana e fiorentina, miserie che sono continuate a lungo, contro di lui, anche dopo la sua morte.

Solo Francesco ha finalmente detto di lui: «La sua inquietudine, però, non era frutto di ribellione ma di amore e di tenerezza per i suoi ragazzi, per quello che era il suo gregge, per il quale soffriva e combatteva, per donargli la dignità che talvolta veniva negata. La sua era un’inquietudine spirituale alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come un “ospedale da campo” per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati».

La sua famiglia era laica, e anche Lorenzo, durante il periodo bellico, vive da laico. Maturità classica, Accademia di Brera, passione per la pittura sono le tappe alle quali fa seguito una conversione folgorante, totale.

Entra in seminario nel 1943, e subito si trovò a scontrarsi con la mentalità della Chiesa e della curia: non riusciva a comprendere le ragioni di certe regole, prudenze, manierismi che ai suoi occhi erano lontanissimi dall’immediatezza e sincerità del vangelo.

Ne esce sacerdote nel 1947, e acquisisce qualche esperienza come coadiutore parrocchiale a San Donato, nella diocesi di Firenze, in una realtà rurale arretratissima: i suoi parrocchiani sono braccianti, pastori ed operai, perlopiù analfabeti,

Decide quindi di aprire una scuola popolare aperta a tutti, subito in contrasto con la curia fiorentina, che nel 1954 lo confina a Barbiana, una frazione del comune di Vicchio, poche case sparse, una chiesa (S, Andrea) con canonica, con scuole lontane e con un cimitero, importante perché proprio lì don Milani inizierà la sua scuola per ragazzi, dal motto significativo “I care”.

All’inizio apre in canonica una scuola popolare per giovani come quella sgradita alla curia, dove insegna al mattino, mentre il pomeriggio fa scuola ai più piccoli delle elementari.

Nel 1956 rinuncia alla scuola serale popolare e organizza per i primi sei ragazzi che avevano finito le elementari una scuola di avviamento industriale.

Nel 1958 dà alle stampe il libro “Esperienze pastorali” iniziato a S. Donato, che dopo pochi mesi fu ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio.Nel 1967 Don Lorenzo Milani scuote la Chiesa e tutta la società italiana con un altro libro “Lettera a una professoressa”, scritto insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana. Il libro denuncia l’arretratezza e la disuguaglianza presenti nella scuola italiana che, scoraggiando i più deboli e spingendo avanti i più forti, sembra essere ispirata da un principio classista e non di solidarietà; un atto d’accusa verso l’intero sistema scolastico.

Mi viene da pensare che anche oggi quell’atteggiamento esiste nel governo Draghi (penso ai Curricula del Ministro Brunetta per avere informazioni sui candidati, certamente migliori quelli dei benestanti rispetto a quelli delle classi più deboli). Nella scuola di Don Milani si studia dodici ore al giorno, 365 giorni all’anno. L’insegnamento religioso non ha nulla di ortodosso; si legge il Vangelo, ma senza mai il tentativo di indottrinare i ragazzi. Si leggono insieme i giornali, si scrivono lettere e testi collettivamente. Si studiano anche lingue straniere, per eventuali lavori all’estero.

Anche qui viene di pensare a qualcosa di oggi, alla fraternità di Francesco, soprattutto perché, nel 1965 una lettera pubblica dei Cappellani militari taccia di “viltà” gli obiettori di coscienza. Quella lettera, pubblicata sui giornali, viene letta nella scuola e colpisce i ragazzi, che in quel periodo stanno riflettendo con don Milani sul primato della coscienza  e la conclusione collettiva è contenuta in una lettera “L’obbedienza non è più una virtù” che don Milani invia ai cappellani e alla stampa, ponendo il problema morale del cristiano di fronte alle armi e in particolare all’ordine di sparare su civili inermi.

Ne seguono accese polemiche (la lettera è pubblicata solo da “Rinascita”, rivista del Partito Comunista e rifiutata dalla stampa politica o cosiddetta indipendente) e addirittura una denunzia e successivo processo per <<apologia di reato>>.

Spero di aver dato a chi non conosceva don Milani una immagine che da tanti anni fa capire il pericolo che desta nelle classi più elevate una acculturazione di quelle più deboli.

Sono immagini che vengono dal passato, ma che non possono sparire nel silenzio. Immagini di quando “L’obbedienza non è più una virtù” non era uno slogan pubblicitario.

di Carlo Faloci

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