Una riforma inutile

Un mio amico carissimo, valente avvocato del foro di Roma, mi ha spiegato che in Italia è quasi impossibile essere condannati da un tribunale: con la sola eccezione dei reati più gravi (come omicidi e stragi) sarai salvato dalla prescrizione. Forse esagera, ma a Roma ci vogliono mediamente 6 anni per arrivare a una sentenza definitiva. Quasi quattro in media nel territorio nazionale. Se si considera che il processo, generalmente, non inizia il giorno dopo che il reato è stato commesso, ma dopo un congruo periodo di indagini, si vede facilmente che la prescrizione è la miglior difesa per la generalità degli imputati, basta assecondarla facendo un po’ di melina, all’occorrenza.

Con questa premessa, si potrebbe pensare che la riforma Bonafede fosse una buona risposta al problema della giustizia italiana, prevedendo che l’inizio del processo interrompe la prescrizione. Anche perché avrebbe reso inutile il ricorso a cavilli e lungaggini da parte dei più smaliziati difensori.

E invece no! 

Infatti, si era finora creata una sorta di equilibrio tra i processi per i reati più gravi e quelli per reati più lievi in attesa di appello: man mano che questi ultimi si prescrivevano, le Corti d’appello potevano affrontare i processi più importanti. Paradossalmente, la recente riforma farebbe aumentare a dismisura il numero dei processi in appello, portando tendenzialmente alla paralisi della giustizia. In altre parole, pur avendo l’intenzione di abbreviare i tempi processuali e migliorare la risposta dei tribunali nei confronti delle vittime dei reati, la riforma dell’ex guardasigilli allungherebbe i già drammaticamente lunghi tempi processuali italiani – riferiti ai tre gradi di giudizio – creando un innegabile danno a tutti i cittadini in attesa di una sentenza definitiva.

All’Italia sarebbero piovute addosso una marea di sanzioni per irragionevole durata dei processi, sanzioni che alla fine, non dimentichiamo, sono pagate dalla solita tartassata minoranza di cittadini che non evadono il fisco.

Tanto è vero questo, che già erano in discussione in commissione parlamentare i correttivi per ridurre il numero dei ricorsi in appello e renderli più veloci, con un iter particolarmente travagliato.

Non ci si deve stupire, al di là delle solite polemiche politiche tra cosiddetti garantisti e giustizialisti, che l’attuale governo abbia dovuto correre ai ripari, inventando un nuovo, poco convincente concetto: non c’è più la prescrizione del reato, ma l’improcedibilità del processo.

Non chiamatela zuppa, è pan bagnato. Ma tocca proprio mangiarselo, per togliere il percorso processuale dal pantano: l’alternativa sarebbe del tutto insostenibile.

Come si vede, sia i cosiddetti “giustizialisti” (Bonafede, per semplificare), sia i cosiddetti garantisti (Cartabia, per intenderci) hanno fallito il loro compito di fare una riforma che rendesse più efficace e, direi, più umano il processo penale: cioè più in linea con il principio di certezza della pena (Beccaria docet) e contemporaneamente più rispettoso dei diritti del cittadino (imputato compreso).

Ed è ormai evidente il perché: una casa non si costruisce dal tetto, ma dalle fondamenta. La riforma della giustizia, similmente, dovrebbe iniziare con l’incidere direttamente sui tempi processuali: ottenuto questo, la prescrizione diventerebbe di secondaria importanza, non sarebbe più in grado di vanificare l’attesa di giustizia, sia per gli imputati, sia per le vittime di reato.

Per esempio, incide molto sui tempi processuali l’organico dei magistrati. Da noi il numero di magistrati rispetto agli abitanti è la metà della media europea; nei 28 Paesi presi in esame dal Consiglio d’Europa siamo al 24° posto per numero di magistrati e al 25° per numero di addetti non togati. Ma il carico dei tribunali è tra i più elevati, vigendo da noi l’obbligatorietà dell’azione penale.

Diverse altre cause eliminabili di eccessiva durata processuale sono state più volte segnalate dal Rapporto biennale della Commission Européenne pour l’Efficacité de la Justice.

Tuttavia, una riforma organica capace di abbreviare concretamente i tempi della giustizia non è stata fatta né sembra essere in cantiere. Le modificazioni al disegno di legge proposte dal governo sembrano essere poco più che rattoppi a un vestito che sta andando in pezzi, quando ci vorrebbe un bell’abito nuovo. 

Ma la ministra Cartabia è una giurista di vaglia, che ha ricoperto la carica di Presidente della Corte Costituzionale. Chi sono io per criticare la sua proposta, per dichiararmi insoddisfatto? Non ho neppure uno straccio di laurea in giurisprudenza.

Ebbene, anch’io, come molti cittadini italiani, ho avuto occasione di entrare in contatto con il sistema giudiziario. Ed allora, voglio semplicemente raccontare una vicenda, molto rappresentativa della necessità di modificare profondamente le procedure anziché preoccuparsi di prescrizione e improcedibilità.

Un anziano signore era a cena con i familiari per festeggiare un compleanno. Il ristorante presso cui si trovava aveva una botola per accedere alla cantina e questa botola era rimasta aperta. L’anziano signore vi cadde attraverso e riportò gravi lesioni, per le quali fu portato al più vicino ospedale (Terracina). La TAC evidenziò un grosso ematoma della milza, che i chirurghi decisero di operare. Ma quel paziente aveva una milza malata e di enormi dimensioni, ciò che, a detta dei chirurghi, ne rendeva impossibile l’asportazione. Il povero signore, fu trasferito in un ospedale romano, con la richiesta di curare l’ematoma con mezzi diversi, cioè con una procedura di embolizzazione dell’arteria della milza per via angiografica. La procedura fu eseguita con un certo successo, ma dopo diverse settimane il paziente morì, per una serie di gravi complicanze, complici anche l’età avanzata e le malattie concomitanti.

I suoi familiari sporsero denuncia presso il tribunale di Terracina contro il gestore del ristorante. Questi cercò di difendersi: è vero che la botola era aperta, ma l’anziano signore non era morto per la caduta. Era morto perché i medici di Terracina non avevano saputo curarlo. Ma chi ha detto che la colpa fosse dei medici di Terracina e non dei medici di Roma, dove era avvenuto il decesso? Fatto sta che il procedimento, iniziato a Terracina fu trasferito al tribunale di Roma. Qui fu esaminato da un altro giudice che stabilì di non essere competente, restituendo l’incartamento al tribunale di Terracina. A questo punto, il giudice di Terracina chiese il parere di un esperto, il cosiddetto CTU (consulente tecnico d’ufficio). Questi stabilì che la causa di morte era da identificarsi nell’incongruità delle cure ricevute presso l’ospedale di Roma, così il processo fu finalmente attribuito definitivamente al tribunale di questa città.

Intanto, era passato del tempo…

A Roma il processo fu assegnato ad una giudice, che era incinta e, di lì a poco, entrò in aspettativa per gravidanza. L’aspettativa si prolungò poi per l’allattamento, forse per qualche altro motivo di salute, e il processo fu rimandato più volte.

Intanto, era passato altro tempo…

Finalmente il processo iniziò, e durò una sola seduta: quella che serviva a stabilire che il reato, chiunque l’avesse commesso, era caduto in prescrizione.

A me, personalmente, questo esempio (vi assicuro che è tutto vero) è bastato a capire che il problema della giustizia italiana è proprio il bizantinismo delle sue procedure. Né la riforma Bonafede né la riforma Cartabia avrebbero reso più breve quel procedimento. Con la prima, però il processo sarebbe giunto a termine con una sentenza di primo grado. Magari non a una sentenza definitiva, per i problemi che ho illustrato più sopra. 

Comunque, spero che questo piccolo esempio valga a comprendere che serve un nuovo vestito, non i rammendi e le pezze a colore.

di Cesare Pirozzi   

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