A 17 anni uccisa in India dai familiari perché indossava i jeans

Difficile immedesimarsi in questa storia, anche leggerne i contenuti diventa straziante perché necessariamente occorre scendere in quei luoghi, in quelle terre, toccare con mano certe culture così distanti dal nostro modo di pensare e di vedere il mondo.

Provo a farlo indossando io quei jeans, come faccio sempre ma non nel mio paese, non nella mia città. Provo a prendere posto nell’anima di questa ragazza, cercando di non far rumore e di parlarne in prima persona. Perché almeno questo lo merita.

So che quando la vittima di un reato brutale parla in prima persona, la curiosità e l’interesse dei lettori aumenta. Diventa inconsciamente un dialogo, uno sfogo, come se la ragazza in questo caso avesse scelto un lettore specifico con cui confidarsi.

Diventa non solo una notizia ma la consegna di emozioni, sentimenti, turbamenti, rabbia, percezioni, sensazioni ed affettività.

Un dono di fiducia.

“Mi chiamo Neha Paswan e ho appena compiuto 17 anni. Sono nata e cresciuta in un villaggio che, ne sono certa, voi non avete mai sentito pronunciare così come ignorate tante cose che succedono non solo in India ma proprio nei piccoli paesi più sottosviluppati. Ebbene io sono nata e cresciuta nel villaggio di Savreji Kharg, nel distretto di Deoria, una delle regioni più arretrate dell’Uttar Pradesh, lo stato indiano più popoloso nel nord del Paese.

Qui, noi donne non abbiamo nessun diritto. Siamo da sempre sottomesse agli uomini, che decidono come dobbiamo vestire e cosa dire, marionette nelle loro mani, la nostra vita ha il valore di niente. Le donne pertanto vengono uccise con grande facilità, come fosse una convenzione, un’usanza, una tradizione che si tramanda di padre in figlio. Venti donne al giorno muoiono in India per violenza domestica, a volte anche prima della nascita perché non volute oppure dopo il matrimonio perché la dote che hanno portato non è ritenuta sufficiente.

Nel mio caso, la parte più retrograda della mia famiglia, i nonni e gli zii, insistevano affinché io indossassi il sari tradizionale, anziché i pantaloni, e la scorsa settimana la situazione è degenerata.

Io sono stata uccisa a diciassette anni, dalla mia famiglia solo perché indossavo i jeans.

Quel giorno c’era una festa religiosa, avevo digiunato tutto il giorno come richiede la religione indù. La sera ho deciso di indossare i jeans per le ultime celebrazioni ma i nonni hanno insistito, volevano assolutamente che mi cambiassi indossando un vestito più tradizionale. E io ho detto no. Ho cercato di far capire loro che quei pantaloni erano fatti per essere indossati e per questo li avrei messi. Ne è seguita una discussione feroce e poi i miei parenti, sangue del mio stesso sangue, mi hanno picchiata con dei bastoni fino a tramortirmi. Hanno promesso a mia madre che mi avrebbero portata in ospedale ma non le hanno consentito di accompagnarmi.

Quando mia madre ha mandato alcuni parenti a controllare che davvero fossi nelle mani dei medici, si è scoperto che di me non c’era traccia.

Da qui il mio racconto diventa un po’ nebuloso. Mi vedevo, li vedevo come dall’alto, da un’altra angolazione. Era come se stessi assistendo ad un film ma non avevo più emozioni. Fotogrammi che scorrevano davanti ai miei occhi e io immobile a guardarmi come dall’esterno.

Il giorno dopo mia madre che è una donna, questo va sottolineato, una donna, vede un corpo che penzola dal ponte sul fiume Gandak, che attraversa la regione, e quando accorre si accorge che si tratta di me. Di sua figlia. L’autopsia ha rivelato che ho avuto il cranio spaccato dalle bastonate.

Ebbene mia madre che in quanto donna non ha alcun diritto neanche sulla propria figlia, ha avuto il coraggio di ricorrere agli agenti, di denunciare i suoi parenti alla polizia per la mia uccisione.

Ed è lì che forse per la prima volta ho visto mia madre con occhi diversi.

Ora, anche se non ci sono più, vorrei dirle grazie per il suo coraggio e grazie per il suo volermi bene mascherato a volte da una rigidità dovuta.

Io sono stata fiera di lei. Questo volevo dire.

E ora mi chiedo se i miei assassini verranno adeguatamente puniti. Mi viene da sorridere conoscendo quel contesto.

Benché la polizia abbia incriminato per la mia morte dieci persone, tra le quali i nonni, gli zii, le zie e quattro persone, sapere che i nonni e uno zio, siano già stati arrestati vuol dire poco. Il dubbio di una imminente scarcerazione è lecito.

Spesso le pene sono inadeguate e riflettono una società in cui la vita delle donne equivale a meno di niente.

La mia è solo l’ennesima tragica vicenda di un’India che lotta contro il persistere di una cultura patriarcale e violenta. La rete pullula di video che, purtroppo inutilmente, denunciano questi episodi inaccettabili e ricevono commenti indignati. Le associazioni contro la violenza sulle donne denunciano il fatto che la Polizia arresti i presunti colpevoli, spesso con ritrosia; ma che, altrettanto spesso, li rilasci dopo poco, senza processo o condanna.

Sono certa che i miei assassini, i miei parenti, coloro che avrebbero dovuto proteggermi non subiranno alcuna pena.

E volete sapere una cosa. Mio padre lavorava lontano da casa per guadagnare i soldi per farmi studiare. Io volevo diventare poliziotta. Strana la vita vero?

Guardo i miei genitori disperati, apprezzo il loro coraggio e a volte penso che se mi fossi adeguata alle regole, alle sottomissioni, alle tradizioni ora loro non vivrebbero questo dolore e io sarei ancora viva.

Ma sono pensieri che ho solo per un attimo.

Credo invece che rifarei tutto perché in fondo, una vita vissuta così, non si può definire tale.

Dovrebbero ribellarsi tutti ma io non ci sono più e non sono mai stata parte dei “tutti, della massa”.

Però mia madre ha osato andare dalla polizia, mia madre ha denunciato i suoi genitori, mia madre è andata oltre e di quell’oltre io le sarò eternamente grata. Vorrei che fosse lei la fautrice di un movimento per la libertà delle donne e il riconoscimento della loro dignità.

Sarebbe bello. Lei che mi ha dato la vita potrebbe insieme a tante altre mamme, riportare ad una vera vita tutte le donne dell’India”.


di Stefania Lastoria




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