L’ultima battuta sarà, un giorno, di Khasha Zwan, comico afghano?

In Afghanistan, terra dell’oppio, arida, desertica, ricchissima nel sottosuolo, che nei ricordi di quando si studiava geografia, era una delle nazioni più semplici da ricordare, si continua a morire per la violenza dell’uomo sull’uomo.

E’ una terra senza pace. Una terra in cui si è finto di esportare democrazia per venti lunghi anni. La consapevolezza che un popolo sia sostenuto, guidato, portato con la diplomazia, con lo studio, senza forzature, verso i cambiamenti,  sembra farsi strada, all’improvviso, solo adesso che si è capito che nemmeno la libertà, incredibile bene, può essere imposta, se mancano le basi, la crescita, per un suo discreto utilizzo. La libertà è un concetto, ma la sua applicazione nella vita di tutti i giorni è soggetta alle regole della collettività, per il bene di tutti rispetto al singolo.

In Afghanistan si muore. A volte per tortura, a volte per fuoco amico, a volte per l’Isis, a volte per i talebani, a volte perché sei donna e hai contravvenuto a qualche rigida regola. Ci sono mille ragioni per morire.

A volte in Afghanistan si muore perché due soldati ti arrestano, perché sei un comico conosciuto, perché ridi dei tuoi stessi costumi, perché una battuta, una frase ironica, uno sketch, è ritenuto in qualche modo offensivo. Perché ovunque nel mondo, dove la libertà è negata, non si riesce a ridere di sé stessi. E questo non solo in Afghanistan.

Dopo essere stato arrestato e torturato un comico afghano, noto per le sua ironia, è stato ucciso con il taglio della gola. Un sistema forte sa ridere con i comici. Un sistema dittatoriale, forte solo della sua violenza e non di un consenso generalizzato, i comici li uccide. Il silenzio, il divieto di cantare e ridere, la chiusura in casa, tutto ciò che è pensiero e, potenzialmente, in contrasto con chi vuole comandare, deve tacere. Se poi tutto questo trova le sue basi in un retaggio culturale non sufficientemente modificato, in un disarmo di molti, reale e mentale, non incontra nemmeno sufficienti oppositori. Se un popolo è diviso, il più armato vince.

Nazar Mohamed, il vero nome di Khasha Zwan, era di Kandahar e sapeva far ridere, di chi oggi è al potere, con i suoi canti  e balli. Lo hanno ucciso e ne hanno fatto un eroe. Avrebbero potuto liberarlo e lasciarlo vivere. Non farà più  distrarre e sorridere, ma sicuramente si è inciso il suo nome sulla pietra di granito e non sulla sabbia del deserto.

Lui sarà ricordato per sempre, come possibilità di un sogno raggiungibile, dagli uomini e dalle donne dell’Afghanistan.

Patrizia Vindigni

 

 

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