Elezione e astensione

In un modo o nell’altro, anche questa tornata elettorale è andata. Non so se essere proprio felice dei risultati, ma lo sono abbastanza per la mia città, Roma, che è riuscita a scansare due pericoli non da poco: da una parte il proseguimento dell’esperienza Raggi, non certo un modello di buona amministrazione; dall’altra la iattura di un Michetti sindaco, personaggio politicamente e culturalmente mediocre, e di poco commendevoli simpatie.

In ogni caso, il solo partito che ha vinto davvero ed anzi ha ottenuto una schiacciante maggioranza assoluta è stato il partito degli astensionisti, che ha superato ormai il 50% del corpo elettorale.

La scarsa partecipazione al voto non è incoraggiante, si direbbe, e sembra esprimere una profonda disaffezione dalla vita politica e sociale, una certa indifferenza nei confronti della cosa pubblica.

Ma forse questa non è l’unica interpretazione possibile dell’astensionismo, o di tutto l’astensionismo. Potrebbe essercene un’altra molto meno negativa, che proverò a spiegare.

Il fenomeno nuovo che ha caratterizzato questa tornata è che hanno vinto i partiti con minor consenso elettorale. È paradossale, ma è proprio così: infatti, diversi sondaggi demoscopici effettuati a ridosso del voto hanno dimostrato che il centrodestra, uscito sconfitto dalle elezioni, ha in realtà la maggioranza relativa dei consensi. L’interpretazione più comune di questo strano fatto è che si sia astenuto più l’elettorato di destra che non quello di sinistra; ma perché? e che cosa vuol dire?

A me sembra che il differenziale tra la preferenza politica rilevata dai sondaggi ed il voto effettivamente espresso sia dovuto alla caratura del candidato. Se questi è persona stimabile, come per esempio Sala, Manfredi o Gualtieri, l’elettore di quello schieramento ha voglia di andare a votarlo; se invece si tratta di persona poco attendibile, l’elettore resta a casa pur simpatizzando per lo schieramento che lo ha candidato. Questo perché il sistema elettorale per i sindaci e i presidenti di regione ci mette di fronte a una ben precisa persona piuttosto che a un astratto simbolo, e ci costringe a una scelta concreta più che ideologica o umorale. Da una parte premia quei partiti che sanno offrire i candidati migliori, dall’altra punisce i partiti che non offrono buoni candidati.

Se è vera questa ipotesi, non tutto l’astensionismo è un fenomeno preoccupante; anzi ci fa avere più fiducia nella saggezza dell’elettorato  e diventa espressione di una scelta politica matura. Inoltre, ci indica una strada per migliorare la rappresentanza politica, attraverso il sistema elettorale maggioritario. La lista si vota per una scelta di campo, spesso senza neanche conoscere i candidati. La persona, invece, si vota perché se ne ha fiducia. Se da una parte questo meccanismo può far aumentare l’astensionismo, dall’altra può indurre i partiti a proporre  candidati di maggior valore.

Come tutti certamente ricordano, negli anni 90 si scelse con un referendum il sistema elettorale maggioritario. Fu quello che portò all’evoluzione degli schieramenti politici in senso bipolare, snellendo e modernizzando un sistema precedentemente basato sul proporzionale dei cento partiti. Purtroppo quel che piaceva agli italiani non piaceva alla classe politica, che negli anni successivi si adoperò per annacquare e poi annullare il sistema uninominale. Il ritorno al proporzionale – aggravato, peraltro, dalla lunga esperienza del “porcellum” – ha influenzato negativamente la selezione della classe politica: finché si vota una lista e non una persona non c’è alcun incentivo a proporre candidati preparati e credibili. Anzi, la partitocrazia ha dimostrato di preferire i mediocri, meglio manovrabili da un gruppo oligarchico ben inchiavardato sulle poltrone che contano. Inevitabilmente si è creata una frattura tra rappresentanti e rappresentati, perdendo di vista il fatto che il voto dovrebbe essere una delega di potere dai cittadini ai parlamentari. Questi ultimi lo gestiscono troppo spesso in proprio, cercando di orientarsi su quel che i sondaggi mostrano dell’umore del corpo elettorale: per non perdere il consenso, hanno ormai imparato a dire e proporre ciò che gli elettori vogliono sentirsi dire. Ma queste elezioni hanno dimostrato con la forza dei numeri che questo gioco funziona bene quando si votano i partiti, e meno bene quando si votano le singole persone. Il sistema maggioritario restituisce il vero significato alla parola “deputato” o, come si dice negli USA, “delegato”: l’eletto dovrebbe essere semplicemente l’incaricato a rappresentarci, il mero strumento della nostra sovranità. Ma il sistema proporzionale ne fa piuttosto lo strumento di un partito, perché la sua possibilità di essere eletto dipende più dalla posizione che ha nella lista – generalmente stabilita con poca trasparenza da un ristretto vertice – che dal giudizio dell’elettore.

Il recente taglio dei parlamentari ha riproposto la necessità di rivedere il meccanismo elettorale. Sarebbe una buona occasione per fare una scelta saggia, anche per compensare la stupidità di quella riforma, che ha ridotto drasticamente il numero dei parlamentari in base a criteri del tutto discutibili. Nessuno, infatti, si è posto il problema del rapporto numerico tra deleganti e delegati; la riduzione è stata fatta senza un vero razionale, principalmente per obbedire a un umore istintivamente antipolitico. Ma dal momento che il numero dei nostri delegati è stato drasticamente ridotto, diventa quanto mai opportuno sceglierli uno per uno.

Se queste elezioni ci hanno insegnato qualcosa, sarà possibile un ritorno al buon senso e alla buona politica?

di Cesare Pirozzi

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