Parità di genere e più donne in assoluto

C’è chi parla di quote rose in senso aritmetico e chi ne parla in senso etico. In sostanza due fronti contrapposti: quelli che sostengono che a un numero dato di maschi, in una situazione data, debba corrispondere un uguale numero di femmine e quelli che affermano l’importanza del peso specifico, non necessariamente pari, ma autorevoli, maschi o femmine che siano. Questa dicotomia parrebbe risolvere la questione, parrebbe cioè sistemare le cose sia per chi pensa che l’insignificante faccenda della parità di genere sia un gioco di società sia per chi è convinto che “pochi ma buoni” sia la soluzione.

Tuttavia la faccenda è assai più complessa.

Persino guardando alcuni programmi televisivi come X Factor in cui venivano composte le squadre dei quattro giudici, forse non tutti si sono resi conto che le concorrenti donne sono praticamente sparite dal programma.

Nell’edizione in cui si rompono gli argini delle quote: over, under, maschi, femmine, gruppi, le donne sono sparite. Su dodici concorrenti solo due donne. Dunque la questione è aperta: siamo di fronte ad una selezione che rappresenta credibilmente il nostro Paese?

Siamo in un’edizione particolarmente sfortunate per le artiste? Le uniche due selezionate rappresentano davvero se non la quota numerica almeno quella qualitativa?

In realtà il dubbio vero è che ogni volta che si pensa di poter eliminare le quote le donne spariscono, e non solo da X Factor. Esiste un punto dolente nella noncuranza con cui si liquida questo problema di rappresentanza che ad alcuni pare una questione di poca importanza.

Un deficit preciso dunque o forse una casualità?

Ma una casualità straordinariamente non casuale, come quando si compongono le liste elettorali, come quando si organizzano i panel per convegni, come quando si organizzano i tavoli delle conferenze, come quando si dispongono i cast per i festival. Recentemente, in occasione di un incontro in Senato per celebrare i 150 anni dalla nascita del Nobel Grazia Deledda il panel era composto da otto amministratori locali maschi che discettavano su “Grazia Deledda, la donna che non mise limiti alle donne” con un intervento della Presidentessa del Senato, Onorevole Casellati, che, in quanto seconda carica dello Stato, doveva rappresentare in maniera più che sufficiente la quota femminile.

Spinti da contestazioni interne, in un secondo tempo, gli organizzatori dell’evento hanno rivisto il cast ufficiale con l’inserimento di due ospiti donne, con diritto di parola, oltre la Casellati. A guardarla in positivo tuttavia si potrebbe affermare che basta una donna di peso per equilibrare otto uomini seppur portatori di incarichi politici. Ma in realtà questa lettura consolatoria non risolve il nodo sostanziale e cioè la difficoltà reale a gestire in maniera “genetica” la questione della rappresentanza di genere. E ciò perché non siamo educati a pensarlo come problema. Ci sono questioni che vanno “imparate” e dunque che richiedono uno sforzo e una volontà sostanziali. La tolleranza per esempio, la democrazia e, dunque, la rappresentanza. Tutti atti per i quali è necessario educarsi. Tutti atti per cui è necessario attraversare un periodo di attenzione e di focus in cui sono previsti fatica, impegno e persino pedanteria. È dunque probabile che noi diamo per concluso un periodo di apprendistato che concluso non è, e che ci siano intere sacche di questo Paese in cui la sperequazione sociale, direi antropologica, a favore degli uomini, è un dato di fatto di cui nemmeno si constata la gravità. Ebbene, forse vi sorprenderà, ma il problema esiste ed è evidente. Ed, evidentemente, è tutt’altro che risolto. Se si continua a sorvolare su questa evidenza basilare, o sottovalutarla, non si fa altro che allevare generazioni per cui non esisterà e, dunque, generazioni per cui il tutto si risolverà aderendo al partito degli aritmetici o degli etici.

Qualcosa del genere è successo nel nostro Paese a proposito della constatazione che vivano in mezzo a noi italiani di colore. Le recenti Olimpiadi ci hanno spiegato che nonostante la presunta e ventilata purezza, il

nerbo sportivo nazionale è costituito da figli di emigrati. E la pubblicità, che è una importante cassa di risonanza, ha santificato il fenomeno inserendo sempre più testimonial di colore nei nostri spot. Fateci caso.

Questa è un’altra evidenza che non potremo differire. E per la quale sarà necessario un periodo per così dire “normativo”. Ha ragione chi ritiene che siamo ancora in una stagione in cui è necessaria una certa dose di pedanteria, in cui ancora bisogna mettere i puntini sulle i, in cui si ritiene prioritario ogni argomento che riguardi educarsi, impegnarsi, faticare per rispettare il prossimo. Come se esista in natura il talento alla tolleranza, alla democrazia, alla coesione sociale. Perché in natura tutti questi talenti non esistono, bisogna lavorare per ottenerli. Sono la sostanza della nostra civiltà. Senza un intervento specifico, della scuola, degli intellettuali, degli amministratori, dei genitori, questi fenomeni penetrano solo più lentamente ma comunque, ineluttabilmente, vengono assorbiti. Ma noi, tutti noi, siamo davvero disposti a lasciar trascorrere tutto il tempo necessario per lasciare che tali evidenze si manifestino in fatti? E’ davvero questo il presente ed il futuro che auguriamo ai nostri figli?

di Stefania Lastoria

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