Distanziamento e vicinanza: il conflitto dell’educatore nella relazione educativa ai tempi del covid. La voce di un’educatrice

di Jole De Franco

Cos’è la relazione educativa? Quella vera, reale e autentica che si contraddistingue da ogni altra relazione sociale che l’uomo vive?

La relazione educativa è quel luogo dove prende forma un atto di fiducia tra educatore ed educando, nel quale essi si raccontano, si comprendono in quanto esseri umani nella loro originalità, costituita di vissuti, di sensazioni e sentimenti, a volte spezzati o traditi, ma costantemente fragili.

È un incontro puro e sincero, in risposta ad una richiesta d’aiuto che un essere umano rivolge ad un altro, affinché il primo riconduca il significato della propria esistenza a sé stesso, affinché la persona ammetta la propria fragilità e la riconosca come punto di forza a manifestazione della propria libertà e della propria capacità di scegliere nel bene per sé stessa.

La relazione educativa è un rapporto che si erge sulla fiducia, grazie alla quale la persona decide di affidarsi ad un’altra, permettendole di diventare il proprio specchio, la propria guida; sul coraggio, con il quale la persona prova a raccontare la propria storia all’interno di un viaggio dentro sé stessa, affinché riesca a portare alla luce il proprio essere più intimo e profondo; sull’empatia, con la quale l’educatore riesce a sentire il mondo dell’altro, ad accettarlo come unico e irripetibile, senza filtri né giudizi; sulla progettualità, poiché nulla è dato al caso e di conseguenza ogni azione dell’educatore è strutturata e calibrata, affinché ogni parola e ogni gesto abbiano un senso e non cadano nella banalità e perciò nell’oblio; sull’intenzionalità, poiché, solo dando senso e significato alle parole e alle azioni, l’educando comprenderà che è nella quotidianità che risiede il luogo dove poter esercitare la propria libertà nel bene, cogliendo così quelle possibilità verso il cambiamento; sulla cura, intesa come quella volontà di lasciarsi “coinvolgere in umanità”, di toccare con mano l’esistenza della persona attraverso l’accoglienza e l’ascolto, andando a rintracciare il suo essere più intimo e profondo, capace di esprimersi e realizzarsi nel bene.

L’educatore non è un amico che consiglia, non è un familiare al quale appoggiarsi, non è qualcuno dal quale dipendere affinché trovi soluzioni ai nostri problemi, non è neanche qualcuno che modella a proprio piacimento il profilo di qualcun altro.

L’educatore è una persona che accompagna l’altro a guardarsi dentro, a carpire ciò che è possibile realizzare a partire dalle proprie capacità e a trovare strumenti nuovi con i quali costruire un progetto, nel quale la persona sia protagonista e padrona della sua vita e riesca a manifestare quella che è la propria impareggiabile e preziosa originalità.

Relazione educativa significa tendere la mano a qualcuno che comprenda il fatto di essere egli stesso l’unico e insostituibile strumento di cambiamento della propria vita, e che, per farlo, sia disposto a lasciarsi guidare all’interno di un percorso in cui egli si riscopra al centro della propria esistenza, riportando al suo essere autonomia e dignità.

La relazione educativa è l’incontro di emozioni che risuonano e si ascoltano a vicenda.

Ed è qui che subentra il conflitto: quella contrapposizione di forze interiori che spingono l’educatore a scegliere la giusta distanza nella quale posizionarsi rispetto all’altro. La giusta distanza che permetta di ascoltare quella risonanza senza identificazione, senza il rischio di esserne sopraffatto.

Quella giusta distanza che non veda né lo spirito salvifico di un educatore che prende in mano la vita dell’educando a tal punto da considerare il disagio di quest’ultimo come il proprio (troppo vicino), né la considerazione della persona esclusivamente come un contenitore da riempire, privo di singolarità e libertà (troppo lontano).

La situazione pandemica che da qualche anno a questa parte vede tutti noi protagonisti è in qualche modo metafora di questo conflitto: una lotta tra distanziamento e vicinanza, nella quale, venendo meno l’interazione a contatto diretto con la persona, ha costretto ognuno di noi a ripensare il concetto di socialità, di relazione.

Quest’ultima è il principio cardine dell’educazione, nonché stella polare attraverso cui l’educatore mette in atto il proprio operato con umanità e professionalità.

E mai come in questo momento storico, egli ha dovuto rimodulare i meccanismi della propria pratica, affinché continuasse a tendere la mano a colui che potesse afferrarla.

Durante il lockdown, ho continuato a svolgere la mia pratica educativa in qualità di tirocinante presso un Centro Anziani Fragili e l’unico strumento al quale era possibile affidarsi era il telefono: un luogo asettico, privo di sguardi, di gesti che potessero chiarificare l’intensità delle parole che utilizzavo.

Ed è stato questo luogo nel quale la relazione ha preso forma, in un gioco di voci che potessero ascoltarsi e comprendersi, senza poter vedere volti né toccare mani.

Il conflitto che ho vissuto all’interno di questa relazione educativa con l’anziano è consistito proprio nella scelta di quelle parole armoniose, che riuscissero a trasmettere un messaggio chiaro e nitido, quale “io ti sento, ti ascolto nella tua sofferenza, comprendo e condivido il tuo dolore”.

Un messaggio che riuscisse a tradursi in solidarietà, in conforto.

In una mano che si protrae verso l’altro, con la speranza e la cura che questo possa afferrarla e stringerla.

Questa è stata per me la relazione educativa ai tempi del Covid: un conflitto, che separa per riunire delle anime fragili che si incontrano e si ascoltano, in uno spazio costituito di accoglienza, confronto, comprensione e fiducia reciproca.

Nonostante le distanze.

Alla giusta distanza.

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