È cambiato qualcosa? (2/3)
Ritornando alla nostra “storia” bisogna pur dire che Garibaldi, partito da Quarto il 5 maggio 1860, in appena quattro mesi ebbe la meglio su un esercito molto più numeroso e meglio dotato ed armato. Almeno così racconta una parte della storiografia.
Il termine giusto, forse, non sarebbe “ebbe la meglio” ma sicuramente dovrebbe dirsi che Garibaldi ed i suoi, grazie all’appoggio popolare ed alla liquefazione dell’esercito borbonico in Sicilia “riportarono una serie di vittorie” che erano assolutamente non prevedibili se rapportate al piccolissimo numero delle camicie rosse in rapporto ai soldati del Regno delle due Sicilie. Lo stesso dicasi delle due modeste imbarcazioni che trasportarono le 1.084 camicie rosse da Quarto in Sicilia e che avrebbero eluso la vigilanza delle navi borboniche. In effetti non fu così! Non avevano eluso un bel niente ed i garibaldini riuscirono a navigare, attraccare e sbarcare solo grazie ad una serie di appoggi: a) durante il viaggio la flotta sarda, guidata dall’ammiraglio Persano (Carlo Pellion di Persano, diario privato, politico, militare, Torino 1889) protegge con discrezione il viaggio dei volontari; b) lo stesso attracco e sbarco dell’11 maggio 1860 fu facilitato dalla presenza nel porto delle navi da guerra britanniche Argus ed Intrepid, il cui comandante, Ammiraglio Mundy, ingiunse alle unità napoletane di non aprire il fuoco adducendo la motivazione che doveva essere consentito il reimbarco dei marinai inglesi. Lo stesso Garibaldi, nelle sue Memorie (Rizzoli, Milano 1982, pagg. 252 -253) così scrive: “La presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro; […] io fui per la centesima volta il loro protetto».
C’è da dire, comunque, che lo sbarco dei garibaldini in Sicilia fu accolto da un favorevole clima popolare di concordia, spinto da ataviche attese finalizzate al possesso della terra e da aperta ostilità di larga parte della popolazione siciliana al governo dei Borboni. Tanto è vero che, quando nel 1837 una gravissima epidemia di colera colpì la Sicilia provocando circa 70.000 morti, la popolazione ritenne che la colpa fosse da attribuire al potere esercitato dai Borboni che avevano volutamente inquinato aria ed acqua (come sostenere, almeno con riferimento alle posizioni di certi novax, che la storia non si ripeta e non abbia i suoi corsi e ricorsi?). Il 12 gennaio 1848, primi in Europa, a Palermo scoppiarono i moti contro i Borboni, fu dichiarata la decadenza della monarchia e proclamata l’indipendenza della Sicilia. Anche se tale stato rivoluzionario sopravvisse solo poco più di un anno le aspirazioni alla indipendenza ed alle ripartizioni della terra non morirono con il ritorno dei Borboni e dopo poco più di un decennio erano più vive che mai. Ecco perché ci fu, almeno inizialmente, un grande appoggio popolare ai garibaldini, visti come coloro che avrebbero distribuito la terra ai contadini. Tanto è vero che il 14 maggio 1860 Garibaldi a Salemi proclama:
“Siciliani, Io vi ho guidato una schiera di prodi accorsi all’eroico grido della Sicilia, resto delle battaglie lombarde. Noi siamo con voi! Non chiediamo altro che la liberazione della nostra terra. Tutti uniti, l’opera sarà facile e breve. All’armi dunque! Chi non impugna un’arma è un codardo e un traditore della Patria. Non vale il pretesto della mancanza d’armi.
Noi avremo fucili; ma ora un’arma qualunque basta, impugnata dalla destra d’un valoroso. I municipi provvederanno ai bimbi, alle donne, ai vecchi derelitti.
All’armi tutti. La Sicilia insegnerà ancora una volta, come si libera un paese dagli oppressori colla potente volontà d’un popolo unito”.
Purtroppo, come vedremo in seguito, le cose andarono in altro modo. Le requisizioni della terra e la redistribuzione ai contadini non furono fatte per non scontentare nobili e alta borghesia. Furono assegnati solo pochi terreni demaniali, la cui misura ed entità non poteva risolvere il problema. Il problema dei demani si trascinava dal 1806, quando Giuseppe Bonaparte aveva emanato le leggi eversive della feudalità, sottraendo ingenti quantità di terre a quegli usi civici che da tempo immemorabile soddisfacevano ai bisogni delle popolazioni rurali. Con il passare degli anni, la piccola borghesia agraria, detentrice delle cariche comunali, si era impadronita delle terre indivise, frammentandole e usurpandone la proprietà. Ferdinando II, che aveva cercato di reintegrare quei terreni nei demani statali, ottenne unicamente di fare passare alla opposizione un rilevante gruppo di famiglie della borghesia terriera, soprattutto in Calabria.
La coscrizione obbligatoria rappresentò poi un’autentica beffa ai danni di una popolazione che non aveva mai subito un tale obbligo e rappresentò un clamoroso fallimento. La situazione precipitò rapidamente e Garibaldi fu costretto a far pervenire consistenti aiuti dal continente. «Più che dai contingenti isolani – ammette Garibaldi – i Mille furono aumentati da varie spedizioni posteriori, partite dal continente» (G. GARIBALDI, I Mille, Camilla e Bertolero, Torino 1874, p. 107).Dal giugno all’agosto 1860 giunsero in Sicilia, come rinforzi, ulteriori ventiduemila uomini. Si trattava di soldati dell’esercito piemontese, appositamente congedati e di altri garibaldini che accorrevano in Sicilia a sostegno dei loro ideali di una Italia sola ed unita. Tra questi ultimi ci fu anche il garibaldino Augusto Angelucci, nonno di Laurina Angelucci, tolfetana.
Si creerà ben presto una profonda cesura tra la politica perseguita da Garibaldi e gli obiettivi dei contadini siciliani: Garibaldi ed i garibaldini giunti dal nord mirano ad una meta essenzialmente politica mentre i contadini si disinteressano dei fini generali della guerra e lottano contro le tasse, contro i signori e per la conquista della tanto agognata terra. Insomma lottano per la loro stessa sopravvivenza e per quella delle loro famiglie. Garibaldi, invece, non può permettersi l’alienazione dell’appoggio della borghesia locale che vede in lui lo strumento per ottenere l’indipendenza dalla Monarchia napoletana. Il classico cul de sac dal quale Garibaldi, almeno allora, non fu in condizione di uscire. E ci penserà allora Nino Bixio ed altri maggiorenti dei cosiddetti Mille a tranciare il nodo di Gordio, inaugurando un sistema che perpetrerà, ai danni del popolo siciliano prima e delle popolazioni del sud poi, le più atroci crudeltà. Come sopra detto, dopo il proclama di Salemi ed il decreto del 2 giugno con il quale, al grido di “Italia e Vittorio Emanuele, Giuseppe Garibaldi comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia, in virtù dei poteri a lui conferiti, decreta” che una quota dei terreni di uso civico verrà assegnata senza sorteggio, a chiunque si sarà battuto per la Patria e che in caso della morte del milite questo diritto apparterrà al suo erede”. Il proclama proseguiva prevedendo che la quota assegnata ai combattenti sarebbe stata identica a quella assegnata ai capi di famiglia non combattenti e che le quote spettanti a questi ultimi sarebbero state comunque sorteggiate. Nel caso in cui le quote fossero sufficienti a soddisfare le esigenze di tutta la popolazione allora ai combattenti sarebbe spettata una doppia quota. Se, poi, le disponibilità di terra si fossero rivelate insufficienti si sarebbe proceduto alla requisizione dei terreni di uso civico appartenenti allo Stato.
Così non fu ed i contadini di Bronte, la cui proprietà terriera era detenuta dai nobili e dagli eredi Nelson che possedevano la Ducea, un enorme latifondo ottenuto illegittimamente per concessione Borbonica, scesero in piazza e iniziarono una violenta rivolta contro la nobiltà ed i possidenti terrieri. Il 4 agosto 1860 fu lì inviato il questore Gaetano de Angelis al comando di 80 uomini della guardia nazionale che però, analizzate le ragioni dei contadini, fraternizzarono con gli insorti.
“Garibaldi fu immediatamente sollecitato, con numerosi dispacci, dal console inglese che gli intimava di far rispettare la proprietà britannica della Ducea, e anche perché erano iniziate delle rivolte simili a Linguaglossa, Randazzo, Centuripe e Castiglione, confinanti con le proprietà inglesi. Fu cosí che per non danneggiare gli inglesi, Garibaldi preoccupatissimo inviò il 6 agosto sei compagnie di soldati piemontesi e due battaglioni cacciatori, l’Etna e l’Alpi, al comando di Nino Bixio. Queste orde circondarono il paese, ma poiché i rivoltosi erano già scappati, Bixio fece arrestare l’avvocato Nicolò Lombardo, ritenendolo arbitrariamente il capo dei rivoltosi e poi facendolo passare anche per reazionario borbonico, mentre invece era stato l’unico che aveva cercato di pacificare gli animi di tutti. Lo stesso giorno, 6 agosto, Bixio emise un decreto con il quale intimava la consegna di tutte le armi, l’esautorazione delle autorità comunali, la condanna a morte dei responsabili delle rivolte e una tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla “pacificazione” della cittadina. Bixio si rivelò in questa vicenda un feroce assassino. Per terrorizzare ulteriormente i cittadini, uccise personalmente a sangue freddo un notabile che stava protestando per i suoi metodi. Nei giorni successivi raccolse piú di 350 tipi di armi e incriminò altre quattro persone, tra le quali un insano di mente. Il giorno 9 vi fu un processo farsa che condannò a morte i cinque imprigionati, che erano del tutto innocenti e che fece fucilare spietatamente il giorno successivo. Per ammonizione, all’uso piemontese, i cadaveri furono lasciati esposti al pubblico insepolti. Bixio ripartí il giorno dopo portando con sé un centinaio di prigionieri presi indiscriminatamente tra gli abitanti. La Sicilia, nel frattempo, venne posta praticamente in stato d’assedio dalla flotta piemontese, con l’aiuto delle navi francesi ed inglesi, che effettuarono un blocco dei porti e delle coste, causando il crollo dei commerci marittimi e di ogni altra attività produttiva dell’isola.
Il massacro di Bronte rappresenterà l’inizio delle vessazioni alle popolazioni del Sud, tanto è vero che gli stessi Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella nel Corriere della Sera del 31.7.2010, 150°anniversario dell’impresa dei Mille, scriveranno che Bronte è la “perdita dell’innocenza”, “il luogo simbolo del tradimento delle plebi meridionali da parte di troppi poteri: la Chiesa, i Borboni, i garibaldini pressati dalla Gran Bretagna, i Savoia, lo Stato italiano.
Piace concludere questa seconda parte del racconto riportando queste brevi strofe con le quali un servo contadino si rivolge ad un crocifisso
Un servu, tempu fa, di chista chiazza,
Ccussì prijava a un Cristu e ccì dicia:
Signuri! ‘U me’ patruni mi strapazza!
Mi tratta commu ‘n cani di la via;
Tuttu si pigghia ccu la so manazza,
La vita dici chi mancu hedi mia.
Si ppò mi lagnu cchiù peju amminazza,
Ccu ferri mi castija priggiunia;
Undi jò vi preju, chista mala razza
Distruggìtila vui, Cristu, ppì mia!
E la pronta la risposta del Cristo:
E ttu, forsi, chi hai ciunchi li vrazza?
O puru l’hai ‘nchiuvati commu a mia?
Cui voli la giustizzia si la fazza,
Né speri c’autru la faria ppì tia.
Si ttu si’ omu e nun si’ testa pazza,
Metti a profittu sta sintenza mia:
Iò, nun saria supra ‘sta cruciazza,
Si avissi fattu quantu dicu a ttia.
Continua
di Pietro Lucidi