La banalità del lavoro chiamato guerra

La differenza tra materie prime e macerie prime, ormai, si va sempre più assottigliando, si riduce a molto meno di quel leggero scarto di consonante tra esse. La tecnologia tanto aumenta a dismisura la potenza e la violenza del lavoro di estrazione del pianeta, quanto lo fa parallelamente con il mestiere delle armi, il lavoro della guerra. E che questa sia una guerra per la supremazia egemonica sulle risorse e sulle materie prime lo sperimenta il mondo intero: da porti, aeroporti, interporti, fino alle cucine, ai fornelli, agli scaldabagni, alle caldaie, ai frigoriferi delle nostre case. Non più la “guerra continuazione della politica con altri mezzi” – secondo la celebre definizione del generale Carl von Clausewitz -, ma la guerra continuazione del lavoro con mezzi simili. Le stesse componenti elettroniche, informatiche alla base di dispositivi e impianti per uso civile, le ritroviamo negli apparati militari, nei cosiddetti sistemi d’arma.

Una volta erano le applicazioni militari a ricadere su quelle civili. Lo stesso Internet nasce come un sistema di collegamento tra alcune basi missilistiche e due università incaricate dal Ministero della Difesa americano di ricerche sulla sicurezza. Oggi avviene più spesso il contrario. A giugno dello scorso anno è esplosa la rivolta di migliaia di dipendenti e sviluppatori di Google Cloude, per il contratto stipulato dall’azienda su un progetto militare del Pentagono. Le applicazioni tecno-sociali, inoltre, per conquistare sempre nuove fette di mercato, hanno fitte schiere di sviluppatori, che garantisce l’implementamento di sistemi e dispositivi a ogni cambio di secondo negli orologi digitali. È noto, ad esempio, di come la Cia abbia richiesto una consulenza alla maggiore piattaforma social nel mondo, perché in possesso di una rete imparagonabilmente più estesa e tecnologicamente più avanzata della loro. La corsa sarà ancora più vertiginosa con la piena attuazione di Metaverse. Ciò che entra con estrema facilità nelle dita e nei polpastrelli dei nativi digitali, strutturandosi in tutte le ramificazioni del permanente intreccio tra scuola, formazione e lavoro, defluisce ormai nel militare nei termini di una procedura, di un protocollo tecnicamente banale.

Hannah Arendt ha scritto uno dei capolavori della filosofia dello scorso secolo, La banalità del male. Lo scrive come inviata del “New Yorker” al processo tenutosi il 1961 a Gerusalemme contro Adolf Heichmann, responsabile del trasporto ferroviario di milioni di persone nei campi di concentramento e sterminio nazisti. Il gerarca si difese affermando che lui non aveva mai torto neanche un capello a quei deportati; che lui si era limitato soltanto a svolgere scrupolosamente un ordine ricevuto, in forma di incarico di tipo professionale. Era solo un mero funzionario cui erano state assegnate dai superiori delle mansioni lavorative, che – in quanto tali – lui era tenuto a espletare disciplinatamente e lealmente. E Heichmann appariva davvero agli occhi di Arendt niente affatto quale grande e maligno criminale, ma come un anodino burocrate, perlopiù mediocre, senza fervore e spessore. Un mero pezzo dell’ingranaggio gerarchico istruito, programmato e messo lì nella casella che occupava per funzionare al meglio della sua qualità meccanica. Ossia, già allora, a ben vedere, quella del male bellico era in realtà una banalità del lavoro. E non a caso il meccanismo di sterminio nei campi era stato concepito come una vera e propria catena di montaggio della morte, dalla combustine, allo smaltimento dei cadaveri (chiamati pezzi) e delle ceneri, con meticolosi tempi e metodi di esecuzione.

Oggi la tecno-scienza ha completamente omogeneizzato e spianato i confini tra i due campi civili e militari. I grandi mezzi di perforazione, estrazione, movimento terra, quali sonde, trivelle, carotatrici, escavatrici, pale meccaniche, bulldozer, gru, mastodontici truck, camion a due piani, e anche macchine agricole come trattori per aratura, mieti-trebbie, ecc., sono tutte dotate di dispositivi ottico-elettronici e computer di bordo, proprio come tutta la nuova congerie non solo di armamenti, ma pure di device portatili incorporati nei vestiari militari.

La supertecnica diventa anche il linguaggio egemone del mondo lavorativo e bellico, rendendo ormai quello umano vitange. Le parole, infatti, non sono le cose che esse nominano. La parola ‘albero’ e l’oggetto reale indicato con quel nome rimangono due cose diverse. Di qui la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità del dialogo, considerate le ambiguità, gli equivoci, le diverse interpretazioni e concettualizzazioni che esso può generare. Quello della supertecnica, invece, esprime immediatamente, forza, potenza, che agisce direttamente sulle cose, indipendentemente dalla loro nominazione, per manipolarle, deformarle, trasformarle, distruggerle, creandone di nuove. Esattamente è ciò che – con potenza e precisione inarrestabilmente crescente – fa il lavoro. Si usano mezzi sempre più massicci per sbancare vaste area da ridurre a nuovi insediamenti urbani o industriali, per estrarre più profondamente minerali, gas, terre rare, idrocarburi dalla viscere della terra e dei mari. Alla stessa stregua – con bulldozer e cargo armati, missili e aerei per irrorazione di ordigni esplosivi e chimici – si sbancano, si abbattono vecchi poligoni di forza geopolitici per crearne di nuovi, non essendo più in grado di farlo il vecchio linguaggio del dialogo politico e diplomatico.

È questa la vera partita che si sta giocando sul violato, martoriato suolo ucraino. L’obiettivo finale è un nuova conferenza tra le potenze mondiali per ridefinire nuovi equilibri strategico-globali, dopo la rottura di quelli edificati alla fine delle due guerre mondiali del secolo scorso. Una nuova Yalta, e anche una nuova Onu. La Russia – nella sua ancestrale vocazione imperiale – vuole rimettere sui piatti della bilancia planetaria i veri pesi della potenza atomica, di quella del sottosuolo, di quella scientifica e tecnologica.

L’Europa realizza il rischio di sedere al nuovo tavolo solo lateralmente a Cina, Russia e Usa. Ossia solo attraverso i suoi singoli paesi dotati di armamento atomico come la Francia e l’Inghilterra. Quest’ultima, poi, sempre più legata agli USA che alla EU. Per questo sta cercando di produrre un’accelerazione verso un suo assetto militare unitario. Anche ammesso vi riuscisse, sarebbe davvero illusorio, però, pensare che questo possa bastare. Occorre, infatti, soprattutto una visione strategica da mettere su quel tavolo. Quella del nuovo equilibrio planetario, in senso ambientale, climatico, migratorio. Possiamo infatti dire che siamo nella fase capitalistica suprema della estrazione violenta del pianeta, delle sue risorse e materie prime. Le vecchie ideologie contrapposte del passato non ci sono più di fatto. Da occidente a Oriente domina incontrastato il mercato. E questo non può che configurarsi come un incessante processo di banalizzazione, trivialità nella produzione bellico-lavorativa di nuove macerie a mezzo macerie prime.

di Riccardo Tavani

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