Il cielo sopra guerra e pace

I fronti della guerra nella storia sono mutevoli: ciò che resta immutato è il delirio di potere. Come in molti giochi d’azzardo è uso dire “Il Banco vince sempre”, così la follia di potenza distribuisce indifferentemente ora a questo, ora a quello le puntate vincenti, sul piano politico, economico, bellico, per vincere sempre essa come il Banco che distribuisce le carte o fa girare la pallina nella roulette delle epoche. Non interessano i vincitori e i vinti, i forti e i deboli, i calpesta-n-ti e i calpestati di oggi, interessa che entrambi coltivino verso il domani la stessa identica illusione, aberrazione ottica, chimera: quella del dominare sull’essere. Avere il potere su qualsiasi essere, dal più impalpabile e fragile, come l’ombra di una foglia sul muro, fino al più mastodontico e ed esteso quale uno Stato, un impero. Così abbiamo visto – e continueremo a vedere – i perseguitati di ieri, perseguitare oggi a loro volta, e non perché a guidarli sia chissà quale maligna, disumana spietatezza interiore. Anzi, umano troppo umano, è proprio il loro fatale credo, la loro fede cieca, irrazionale nel dominio sull’essere. Così la storia non è altro che una produzione di macerie a mezzo macerie. Scrive Walter Benjamin in relazione al quadro di Paul Klee Angelus Novus, del 1920: “Ha il viso rivolto verso il passato (…). Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata tra le sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente verso il futuro, cui volge le ali, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta”.

Il cielo sopra il cumulo della folle presunzione umana inevitabilmente sbriciolata in una sempre più elevata distesa di rovine. Il cielo sopra la guerra. E il cielo sopra la pace. Quest’ultima da intendere – come insegna Primo Levi – soltanto quale precaria tregua tra una successione di guerre. Il cielo, però, sotto cui tutto questo accade, cos’è? È la condizione stessa dell’esistenza, di ogni esistenza e del suo apparirci allo sguardo degli occhi, alla percezione sensoriale, intellettiva, della coscienza. E lo scontro tra opposte presunzioni di potenza, di dominio, di singoli uomini, interi Stati, gloriosi imperi e civiltà epocali, potrà mai scuotere il cielo dell’esistenza e della sua concreta manifestazione? Può esserci qualcosa che fa tremare, crollare il cielo, che sia simile a un terremoto, a un maremoto, a uno tsunami, a un’eruzione vulcanica catastrofica? Anche facessimo deflagrare il nostro intero arsenale atomico, o si abbattesse su di noi uno spaventoso oggetto astrale, il cielo dell’esistenza si riavvolgerebbe intatto attorno a ogni possibile evento, continuando ad apparire. Apparire a quale sguardo, a quale intelletto, a quale coscienza? Ma esso è l’orizzonte stesso della totalità che si auto manifesta, si auto percepisce e si auto giustifica, nel senso proprio della relazione di giustizia, equilibrio che lega indissolubilmente ogni cosa esistente. L’illusione della forza, del dominio, della sottomissione a sè del mondo, invece, proprio perché impossibile, originariamente contraddittoria, non può che farsi carne di una fantasma folle. Quello della guerra destinato a trascinarsi senza pace, senza fine mai sotto il cielo a sbarre dei propri deliri.

Lo scrive Lev Tolstoj proprio in una pagina alta e tremenda di Guerra e Pace. Alta come il cielo di cui parla, tremenda perché scuote alle fondamenta l’umano, troppo umano sottosuolo della guerra. E a questa pagina lasciamo l’ultimo chiarore che balugina da là in fondo.

Che succede? Sto cadendo? Le gambe mi si piegano…” si disse, e cadde a terra di schiena. Riaprì gli occhi, sperando di scorgere com’era finita la battaglia tra i francesi e gli artiglieri, con un gran desiderio di sapere se era stato ucciso o no l’artigliere rosso, se erano stati presi o salvati i cannoni. Sul suo capo non c’era più nulla, tranne che il cielo: un cielo alto, non limpido, ma tuttavia immensamente alto, con un silenzioso scivolare di nuvole grigie. “Che silenzio, che pace, e che solennità! In tutt’altro modo da come correvo io – penso il principe Andrej – da come tutti correvamo, gridavamo e ci battevamo; in tutt’altro modo da come, inferociti e spauriti, cercavano di strapparsi lo scovolo quel francese e quell’artigliere… in tutt’altro modo scivolavano le nuvole per questo cielo alto, sconfinato. Come mai, prima, non m’accorgevo di questo cielo così alto? E come sono felice di averlo riconosciuto finalmente! Sì, tutto è vano, tutto è inganno, fuorché questo cielo sconfinato. Nulla, nulla esiste, all’infuori di esso… Ma neanche questo esiste, nulla esiste, all’infuori delle quiete, del sentirsi placato. E Dio sia lodato!…”.

Perché è proprio l’inaspettato riconoscersi, il rincontrarsi sotto la dimensione dell’autenticità inscalfibile e della giustizia sconfinata di ogni esistente che apre alla gioia sì improvvisa, ma perché oscurata, obnubilata in noi, pur essendo da sempre in noi. Non serve altra invocazione o benedizione.

di Riccardo Tavani

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