Migliaia di donne parteciparono alla Liberazione dell’Italia: madri, staffette e combattenti

Nel settantacinquesimo anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, un ruolo determinante lo ebbero le donne che parteciparono alla Resistenza italiana. Non erano delle fanatiche, né portavano per partito preso il coltello in mano o fra i denti le 35mila donne che dal 1943 al 1945 parteciparono alle azioni di guerriglia partigiana per liberare l’Italia dal nazifascismo.

Ci furono 4.500 donne arrestate, torturate, condannate, 623 fucilate, impiccate o cadute in combattimento, 3.000 deportate in Germania e tutte desideravano semplicemente un’esistenza più dignitosa, sognavano di vivere in un Paese libero, agognavano spazi di libertà al di fuori dagli schemi precostituiti di un regime che le aveva relegate sempre più a fondo nella sfera familiare e domestica.

Eppure soltanto una trentina di queste fautrici della Resistenza italiana al nazifascismo fu decorata con medaglie d’oro o d’argento al valore militare. Infatti, al momento della Liberazione, probabilmente per non destabilizzare lo stereotipo del maschio-guerriero, le donne vennero escluse, allontanate dalle sfilate partigiane nelle città liberate.

Il riconoscimento collettivo di natura storiografica, ci fu circa un trentennio dopo la fine della guerra. Una tardiva, vergognosa ma necessaria presa di coscienza che quello femminile alla Resistenza non era stato semplicemente “un contributo” ma qualcosa di molto più importante. Si trattò a tutti gli effetti di un’adesione larga e consapevole a un movimento libertario dagli esiti incerti che passava per la guerra, della quale le donne accettarono le atroci regole.Solo nel 1975 il cosiddetto fenomeno della “Resistenza taciuta”, cioè quel prolungato silenzio sul ruolo rivestito da migliaia di donne ignorate dalla storiografia, poteva dirsi superato. Come esito ci fu il proliferare di centinaia di testimonianze, storie di donne più o meno giovani, di ogni fascia sociale, professione e provenienza, antifasciste per scelta personale, retaggio familiare o necessità, che a un certo punto abbracciarono la lotta antifascista e partigiana con determinazione e coraggio.

Ed ecco alcuni racconti di queste combattenti.

Fu una ragazza di diciassette anni, Germana Boldrini, a lanciare il segnale che la sera del 7 novembre 1944 segnò l’inizio della battaglia di Porta Lame a Bologna tra partigiani e nazifascisti: «Quando arrivai a Porta Lame con la mia arma automatica e le bombe a mano lanciai il fuoco, i miei compagni mi seguirono e ci fu un grande combattimento». Germana è una delle circa 500 donne cui durante la Resistenza vennero affidati compiti di comando. Molte erano entrate a far parte sia delle bande armate extra-urbane sia dei gruppi e delle squadre di azione patriottica (GAP e SAP) nelle città e nelle fabbriche, e non di rado assunsero posizioni di vertice.

Così l’emiliana Norma Barbolini prese il comando della prima divisione partigiana “Ciro Menotti” nel 1944, dopo il ferimento del fratello Giuseppe a Cerrè Sologno nel Reggiano, durante uno scontro con i nazifascisti. Disse: «Poiché mio fratello rimase ferito gravemente e non vedevo attorno a me persone che potessero in quel momento prendere delle decisioni, compresi che dovevo essere io a prendere in mano la situazione, a fare delle scelte che in quel contesto ritenevo più opportune ed ero sicura che i partigiani mi avrebbero appoggiata».

Quelle che non riuscirono a sfuggire alla cattura vissero l’inferno del carcere con relative torture, sevizie, stupri di gruppo e violenze sessuali singole come quelle commesse nel carcere vicentino di San Michele e denunciate da una partigiana al momento della Liberazione.

C’erano poi le cosiddette staffette partigiane che accompagnavano brigate e comandi per strade sicure, esploravano, reperivano informazioni sul nemico, trasportavano armi e munizioni, ricongiungevano le formazioni disperse dopo i rastrellamenti, e soprattutto macinavano chilometri su chilometri.

Tra queste c’era una certa Anna Cherchi, una giovane staffetta che guidava i partigiani tra i boschi piemontesi, in mezzo alla neve che celava strade e sentieri, nel freddo gelido, con forza e abnegazione. Ebbene il 19 marzo 1944 venne avvistata da una colonna di militari tedeschi. Il comandante partigiano le ordinò di procedere verso i nemici per dare ai suoi il tempo necessario a mettersi in salvo. I tedeschi la portarono prima ad Alba, poi a Torino. Alle carceri “Nuove” fu torturata ogni giorno per un mese, ma nemmeno le scariche elettriche riuscirono a farla parlare. Anna aveva solo 18 anni ed era una staffetta.

A far luce sugli oscuri e rischiosi compiti delle staffette è una di loro, Marisa Ombra, antifascista piemontese che dopo l’8 settembre 1943 entrò nelle Brigate partigiane garibaldine. Raccontò poi: «Dormivano per lo più nelle stalle, insieme ai ragazzi, scandalosamente. Condividevano tutto, la paura, la fuga, il nascondiglio, il freddo, la fame, possedevano prontezza di riflessi, lucidità, sangue freddo, capacità di mimetizzarsi e di improvvisare gesti e parole credibili. Forse dovute proprio al secolare allenamento specifico degli esseri giudicati inferiori: costretti a imparare la diplomazia, la recita, l’arte di arrangiarsi».

E c’erano poi le “madri”, ossia quelle che diedero vita ad un «maternage di massa», concetto con cui la storica Anna Bravo alludeva alla «disponibilità femminile nei confronti di un destinatario ben determinato, il giovane maschio vulnerabile che si rivolge in quanto tale alla donna come a una figura forte e protettrice, vale a dire a una madre».

Le madri della montagna continuarono a lavorare, tagliare, cucire, preparare indumenti, confezionare pacchi di viveri portati dalle staffette ai partigiani, avvisavano dei rastrellamenti consentendo ai loro uomini di mettersi in salvo. E in molti casi versarono lacrime per i figli veduti cadere sotto i propri occhi. Donne che oggi, a tirare le somme, forse hanno osato, rischiato più degli uomini, lo hanno fatto per garantire ai figli un futuro migliore, per lasciare loro il dono di un Paese libero, per dare ai giovani la possibilità di vivere veramente, di coltivare sogni e ambizioni, di avere un proprio pensiero critico e di poterlo esprimere. Sono loro che poi quei figli li hanno visti morire, uno ad uno, fino a rimanere sole, lacerate da una morte interiore difficile da verbalizzare.

Donne le cui ferite mai cicatrizzate hanno continuato a sanguinare nel tormento dell’anima fino all’ultimo dei loro giorni.

E pensare oggi che il loro contributo per decenni è passato inosservato, nascosto, ignorato, occultato, non riconosciuto ufficialmente, rende tutto assolutamente vergognoso, indegno, riprovevole, disdicevole.

Donne che hanno dato la loro vita per garantire alle generazioni future una vita degna di questo nome. Sono state loro le mamme di noi tutti.

di Stefania Lastoria

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