Il femminismo per disinnescare la guerra

Il pensiero femminista ci fornisce gli strumenti per riconoscere la violenza, assumerla e quindi disinnescarla. E’ al pensiero femminista che dovremmo rivolgerci in questi giorni per riflettere su quali strumenti il femminismo e gli studi di genere ci forniscono per capire il presente e la guerra, e per costruire una posizione politica che ci aiuti a uscire dall’aut aut ‘con la NATO o con Putin’.

Questa è infatti solo l’ultima declinazione di una dicotomia che abbiamo visto presentarsi e ripresentarsi in molte forme, come ad esempio durante la ripresa di Kabul da parte dei Talebani, nell’agosto 2021.

Cambiano gli attori, cambia il paese, ma non la sostanza: ciò che queste dicotomie operano indipendentemente dalla latitudine è l’invisibilizzazione di qualsiasi altro agente, gruppo sociale o attore a parte i governi, gli eserciti, gli uomini che sono in guerra.

Il femminismo ci aiuta ad allargare la visuale e a porre al centro del nostro ragionamento una constatazione banale: non sempre le popolazioni sono rappresentate dai governanti e non sempre i governanti rappresentano gli interessi delle popolazioni. È la retorica della guerra, del patriottismo, dell’emergenza nazionale che ci permette di dimenticarcene.

Dalle piazze dove protestano contro l’invasione dell’Ucraina, le femministe russe del Feminist Anti-War Resistance ci spiegano che nella militarizzazione e nella guerra non c’è liberazione ma costrizione, e la decisione dell’Europa di fornire aiuto militare agli ucraini è preoccupante in questo senso. Alle donne ridotte a madri sofferenti e poco altro corrispondono uomini-soldati-eroi, che sacrificano il loro ruolo di padri e mariti per difendere la patria e, per estensione, le ‘loro’ donne e i bambini che ‘lasciano indietro’.

Tuttavia, il ‘no war’ femminista, occorre precisare, non si basa su un generale rifiuto della violenza in quanto immorale e sbagliata sempre e comunque. Si tratta del rifiuto della violenza di stato e di quella militare, concentrata nelle mani di chi ha già potere.

In un noto scritto intitolato “Transnational Feminist Practices Against War”, pubblicato ben venti anni fa nel 2002, all’indomani dell’invasione dell’Afghanistan, le autrici Paola Bacchetta, Tina Campt, Inderpal Grewal, Caren Kaplan, Minoo Moallem e Jennifer Terry ci offrono delle indicazioni preziose su come l’esistente vada letto da una prospettiva femminista e radicalmente no war. Ci chiedono innanzitutto di osservare come gli effetti del nazionalismo si articolino sia lungo ‘la linea del genere’, sia lungo quella del colore, e di identificare quali sentimenti provati da quali persone sono presentati e narrati come legittimi e quali, invece, sono esclusi dalla sfera della legittimità.

Fare ciò non significa, solamente, osservare come la guerra incaselli più del solito gli uomini e le donne in identità e ruoli tradizionali. Questo lo abbiamo visto nelle immagini e rappresentazioni dell’invasione russa, narrata dai media come ‘una guerra ai bambini ucraini’ e attraverso la disperazione testimoniata dalle donne ucraine in Italia dove lavorano, spesso e significativamente da una prospettiva femminista, come badanti e nel settore della cura. Lo abbiamo anche visto nei video degli uomini che si separano dalle famiglie in fuga per restare a combattere in Ucraina, o attraverso la militarizzazione dell’immagine dello stesso Zelensky, ritratto sempre in tuta mimetica e circondato da ‘fratelli in armi’ mentre esorta volontari e soldati.

E non è solo questo che va analizzato. Dobbiamo anche cogliere il trattamento differenziale che viene riservato a popoli che da anni vivono in teatri di guerra o in territori occupati.

I siriani hanno fin da subito espresso solidarietà agli ucraini: anche loro conoscono le armi russe anche se per loro non altrettanto è stato fatto da organizzazioni intergovernative come l’UE. Sono stati i palestinesi a sottolineare l’incoerenza di un’Europa che sanziona la Russia per aver invaso e tentato di cambiare la demografia delle aree del Donetsk e Luhansk attraverso la ‘passaportizzazione’ della popolazione, mentre criminalizza chi chiede di fare lo stesso con lo stato di Israele per le medesime violazioni del diritto internazionale in materia di occupazione militare e alterazione degli equilibri demografici dei Territori Occupati attraverso la costruzione di colonie – cosa grave almeno quanto la ‘passaportizzazione’.

Si tratta di cogliere le enormi differenze tra la rappresentazione dei volontari ucraini – uomini e donne che, indipendentemente dalla loro età, si impegnano per la difesa della patria – e quella riservata a palestinesi, iracheni o siriani che fanno lo stesso ma vengono rappresentati come deviati da una propaganda violenta e pericolosa, sempre ‘islamista’ e ‘terrorista’, sempre motivati da un sentimento di odio irrazionale.

La Brigata Internazionale dei volontari in partenza per l’Ucraina viene applaudita, mentre chi è andata a combattere contro l’Isis in Siria e in Rojava viene posta sotto sorveglianza speciale, come Maria Edgarda Marcucci.

La lista sarebbe lunga, anzi lunghissima. Dobbiamo quindi interrogarci su cosa la guerra permette di ottenere per poterla rifiutare in modo radicale e in tutte le sue forme, anche quelle meno visibili.

E poi, sempre, ci sono i pregiudizi razzisti. I media e i giornalisti lasciano passare il messaggio che la resistenza di “europei nostri vicini” è legittima in quanto bianchi e cristiani mentre è palese il diverso metro di giudizio dei rifugiati siriani, afghani e yemeniti. Implicito il concetto che essi siano “qualitativamente diversi” e che ogni forma di loro resistenza sia automaticamente “delegittimata”.

È importante quindi comprendere come la differenziazione tra profughi meritevoli, veri, legittimi e non, che si articola anche nel linguaggio della rispettabilità democratica e liberale delle istituzioni come la stiamo sentendo in questi giorni di sostegno all’Ucraina, si sia andata costruendo e fortificando grazie a due decenni e più di islamofobia e razzismo.

Il no war femminista serve ad attivare la creatività politica necessaria a immaginarci senza bisogno di un esercito e di confini – che è in realtà la condizione che la maggioranza di noi già vive e che, grazie al femminismo, possiamo riconoscere e impegnarci a costruire.

di Stefania Lastoria

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