Yussuf Joff è morto bruciato

Yussuf Joff è morto bruciato. Aveva solo 35 anni. È morto bruciato nel Gran Ghetto dei migranti di Torretta Antonacci, nelle campagne di San Severo, Foggia e Rignano Garganico. Yussuf era partito dal Gambia, dopo un viaggio drammatico, fatto di violenze, detenzioni, lager e umiliazioni di ogni tipo, era giunto in Italia. Era giunto in un paese dove l’accoglienza è un gesto espresso solo da Papa Francesco e altre poche persone. Era venuto per lavorare. Per lavorare nelle campagne del foggiano, a raccogliere pomodori e ortaggi, per meno di tre euro l’ora. Lavorava sotto il sole cocente. Un sole che non perdona. Un sole che arriva a superare 40 gradi, anche 45. Un sole che brucia. Ma Yussuf si era salvato dal sole che brucia. Ma non si è salvato dall’incendio delle baracche del Gran Ghetto in provincia di Foggia. Un fuoco divampato la notte.

Un fuoco assassino. Fiamme che divorano le baracche di cartone e non lasciano scampo. Fiamme che ti ardono le carni. Ti mangiano vivo. E Yussuf urlava. Urlava e piangeva. Ma non poteva uscire, bloccato dalle fiamme, urlava e piangeva. Il fumo. Un fumo acre che ti prende la gola e ti toglie il respiro. Un fumo dal sapore di carne umana bruciata viva. Yussuf bruciava vivo. Nel Gran Ghetto di Torretta Antonacci. Bruciava e pensava a sua madre. Bruciava e pensava alle sue sorelle. Bruciava e piangeva. Sapeva che ora, la sua famiglia, in Gambia, sarebbe morta di fame. Non avevano nessuno che potesse inviare loro quei pochi euri, tre euro l’ora, guadagnati sotto il sole cocente di 45 gradi. Un sole feroce che gli ha bruciato la schiena ma gli aveva risparmiato la vita. Una vita sofferta. Una vita fatta di stenti, violenze e umiliazioni. Ma quel sole cocente lo aveva risparmiato. E lui, Yussuf Joff, giorno dopo giorno, raccoglieva pomodori. Cassette e cassette di pomodori sotto il sole. La schiena spezzata e ustionata. Ma continuava, giorno dopo giorno, continuava per spedire pochi euro a sua madre. Per aiutare le sorelle. Yussuf lavorava, come uno schiavo. Senza diritti. Senza tutele. Senza nessuno che gli dicesse una parola buona. Solo, solo con la sua malinconia. Solo, solo con le sue lacrime. Solo, solo con la forza della disperazione e il sole feroce che gli mordeva le carni. Piangeva. Ma resisteva. Resisteva. Resisteva.

Resisteva anche quando il fuoco gli staccava lembi di carne viva. Resisteva. Sapeva che non poteva morire. Resisteva. Sapeva che se moriva, morivano anche sua madre e le sue sorelle. Yussuf Joff, aveva solo 35 anni, e resisteva al fuoco delle baracche nel Gran Ghetto dei migranti nel foggiano. Yussuf Joff, resisteva alle fiamme che lo divoravano, per poter farsi divorare dal sole feroce di 45 gradi, giorno dopo giorno. Resisteva. Yussuf resisteva e non aveva più speranze. Ma resisteva anche quando il respiro era solo fumo. Resisteva per sua madre. Anche quando le fiamme lo hanno avvolto completamente e non poteva urlare. Il fumo gli strozzava la gola. Il fuoco gli bruciava le carni. In quei momenti, terribili, no pensava a lui. Pensava alle sue sorelle. Pensava a sua madre, a quando si toglieva il poco riso dalla bocca per metterlo nella sua bocca. Pensava a sua madre che non avrebbe più rivisto. Pensava, Yussuf Joff, alla sua terra. Al suo Gambia. Agli odori di quella terra. Ai profumi della sera di quel villaggio, dove la fame e la guerra avevano distrutto tutto. Yussuf è crollato di colpo con la faccia sulla terra della baracca completamente arsa. Mentre crollava, bruciava. Mentre si accasciava e bruciava, a detto solo due parole: mamma, mamma…

di Claudio Caldarelli e Eligio Scatolini

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