Top Gun Maverick e il ritratto di Dorian Gray dell’Occidente

La giacca dell’86, gli occhiali dell’86, la moto dell’86, Maverick è sempre lui.

Non è cambiato di una virgola e il suo mondo è rimasto immobile, cristallizzato con lui. Quell’America di Reagan che si era illusa di potersi identificare col mondo, quell’Impero senza più rivali in cui si era sul serio scoperto come non morire mai.

Top Gun: Maverick, attesissimo sequel del cult film di metà anni 80 Top Gun, è stato un successo clamoroso, ha incassato oltre un miliardo di dollari al botteghino in tutto il mondo eppure, paradossalmente, tutto questo grande botto prodotto dal nuovo film di Tom Cruise, questo volo radente che fa tremare con la sua potenza gli inermi spettatori della terra ferma, è in realtà rivelatore delle grandi crepe ormai lampanti nella narrazione di questo Occidente, di questo mondo atlantico, di questi Stati Uniti d’America, dove presidente non è più il bello e possente Ronald Reagan ma il vecchio “Sleepy” Joe Biden, che cade dalla bici, legge il gobbo scrittogli nei discorsi preparati dal suo team, sbaglia direzione e restituisce l’immagine di un impero americano alla frutta, confuso, che barcolla sbagliando angolo in cui tornare come un pugile suonato che non sa più da che parte andare. Top Gun: Maverick, insomma, vorrebbe ancora essere la celebrazione della migliore e più potente narrazione dello strapotere a stelle e strisce ma, seppur nella grande riuscita di incassi, sembra più un involontario ritratto di Dorian Gray, dove il vero volto dell’Occidente non lo rivela la maschera Maverick, ma il suo amico rivale di sempre Iceman, interpretato da un Val Kilmer profondo, intenso, dolce, potente, che dà un senso e da solo salva lo spessore del film. Davanti al suo amico ed ex rivale come pilota, ora diventato ammiraglio della marina, Maverick ha l’unico momento di verità e autenticità di tutto il film, in cui rivela di non sapere trasmettere ad altri quello che è, di non sapere evolvere, cambiare. È Iceman, sul quale è stato con delicatezza e poeticità cucito addosso lo stesso tumore che nella vita reale impedisce all’attore che lo interpreta quasi del tutto di poter parlare, a dire l’unica che parola di verità che il film riesce a dire sull’America, sul presente, sul nostro tempo. È Iceman, non Maverick, il vero volto dell’Occidente, il dipinto che cela l’autentica immagine del Dorian Gray americano, che a malapena parla, cammina a stento, barcolla, deve scrivere le poche frasi che riesce a dire su un computer e si rende conto con grande consapevolezza che i giorni di gloria sono passati, che è tempo di let go, lasciare andare. È attraverso i dolci, tristi e profondi occhi di Val Kilmer e del suo personaggio Iceman, che il film riesce a descrivere involontariamente il vero stato della narrazione che invece vorrebbe ancora esaltare. Una narrazione che, anno dopo anno, evento dopo evento, smarrisce sempre più il suo senso ed avrebbe bisogno di essere ripensata profondamente, in modo attento e radicale.

di Giacomo Fagiolini

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