Cùntami, il capolavoro negato

di Riccardo Tavani

Cùntami, ossia raccontami, è l’ultimo film documentario di Giovanna Taviani, ma potremmo dire anche il primo di una inedita fase cinematografica. Inedita non solo per la sua personale produzione, ma anche per il cinema italiano. Lu Cunto, diffuso oralmente tra le piazze e le campagne siciliane, è la narrazione di cùntisti e pupari dei fatti sia locali, sia storici reali, sia epici, letterari. Giovanna Taviani parte in questo film dal più grande cuntista e puparo contemporaneo, Mimmo Cuticchio, per aprire la scena a quattro suoi proficui allievi: Vincenzo Pirrotta, Gaspare Balsamo, Mario Incudine e Giovanni Calcagno. Con loro anche il sublime cantastorie di Baghdad, Yousif Latif Jaralla, che con Cuticchio ne ha cùntate molte, con spettacoli rappresentati non solo in Sicilia.


Come appare da questi nomi si può affermare che
lu cunto, tradizionalmente, è un genere popolare riservato solo alla rappresentazione del genere maschile. Con questo suo film, però, Giovanna Taviani apre una inedita modalità artistica del cuntare. Quella che ci mostra il rapporto tra il suono, il ritmo, la metrica scandita dalla voce dei cuntisti e le immagini della terra, del mare della Sicilia, sopra e sotto la sua superficie. Questa sua opera, infatti, non si limita a riprendere voci e gesti dei suoi protagonisti. No, li inserisce dentro la profondità del paesaggio naturale da cui essi scaturiscono, riverberandone l’eco poetica. È una cuntista, la prima persona e donna che “narra l’immagine, lo sfondo, il cielo non solo siculo, ma universale, esistenziale sotto cui appare lu cunto, ricevendone senso e suadenza musicale, dirompenza sociale e politica.

C’è un rapporto sotterraneo che si stabilisce originariamente tra un’opera d’arte e la coscienza collettiva. L’opera in sé stessa, infatti, si costituisce quale autentica esistenza propria, automa, dato che essa è destinata, non l’autrice o l’autore, a mostrarsi alla conoscenza, alla coscienza del mondo. Il destino, ossia la sua originaria destinazione, è apparire alla nostra percezione, sensibilità, coscienza. L’opera è tesa, non può smettere in nessun modo di tendere, di andare, di lanciare un appello, di chiamare, in direzione del soggetto della percezione sensibile e del pensiero. L’opera d’arte è perciò da sempre attesa, ci convoca e simultaneamente noi la convochiamo. È un legame necessario, ossia che non cessa, non smette di stabilirsi, anche se viene oscurato, taciuto, negato.

Il capolavoro di Giovanna Taviani, nonostante i due anni dalla sua uscita, il riconoscimento di pubblico e critica ottenuto lo scorso anno alla Mostra del Cinema di Venezia, e l’assegnazione di un Nastro d’Argento ancora non può essere visto dal grande pubblico. Non ha ancora una distribuzione che porti il film in tutte le sale cinematografiche non solo italiane. In questo senso esso è un capolavoro negato. Negato come destinazione necessaria, ossia innegabile verso chi lo convoca e lo attende, per svelarne altra inaspettata, sorprendente bellezza di sensazioni, interpretazioni, pensieri.  

Certo, il sistema cinema, e in esso quel ganglio cruciale che è la distribuzione, ha subito con la pandemia da Covid un duro colpo. Questo non dovrebbe però impedire di riconoscere il valore d’arte di quest’opera e permettere a quell’originario e necessario legame tra esso e il suo corrispettivo nella coscienza collettiva di manifestarsi appieno.

Siamo consapevoli di potere con questo scritto poco, o nient’altro che una battaglia contro i mulini a vento. Esso, altresì, ha la forza motivata di una testimonianza dell’ingiustizia esistenziale che si compie ogni volta che si nega l’incontrovertibile, l’innegabile. Fosse anche il semplice cunto, canto di pupari e saltimbanchi della poesia epica popolare e l’impalpabile cielo delle immagini che a essi schiude per la prima volta la prima cuntista donna dell’arte cinematografica.

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