Lady Macbeth: potere, perfidia e pazzia

Urla strazianti, presenze demoniache, follia, infanticidio, sensualità e sessualità nel crogiolo del gotico, trasformano il palcoscenico in un immenso mare di sangue. Il potere si abbatte con la follia. L’avidità si nutre di oscurità. Tuoni e fulmini. Grida. Grida. Grida viscerali uccidono etica e morale. Il male soccombe sul finale quando tutto torna al proprio posto con la testa mozzata tra le mani del principe, legittimo erede al trono di Scozia.

Al Globe Theatre di Roma, si consuma la tragedia di Shakespeare: Macbeth. La regia di Daniele Salvo è un sincronismo perfetto e sapiente di luci, suoni, costumi, movimenti, danze e canti. Una partitura recitativa senza sbavature, gli attori e le attrici riescono a reggere più di tre ore di battute incalzanti senza nessun “buco” mnemonico. Una recitazione a volte carnale riempie la scena mettendo al centro della tragedia la forza della follia di lady Macbeth, vera protagonista senza la quale nulla poteva accadere. L’eterna lotta del bene contro il male, dialogata sotto un crocifisso, testimone di una onesta morale ormai persa o dispersa. La perfidia, la sete di potere, l’avidità, di lady Macbeth sono l’elemento su cui costruire una tragedia basata sulle debolezze degli uomini, incapaci di vivere senza il conflitto interiore che li rende deboli alle lusinghe femminili-materne.

L’infamia si trasforma in qualcosa di oscuro, il male diviene il bene del proprio potere, con cui attrarre i malefici di illusioni interiori materializzate sotto forma di Sibille-Streghe-Indovine. Ma è tutto nella testa di un uomo che ha ceduto la sua integrità alla forza inguinale di una donna corrotta dalla sua stessa forza di rinunciare alla maternità naturale delle cose. Tutto consumato senza amore. L’unico gesto d’amore, le mani tra le mani, del critico che scrive di questa rappresentazione, cercando, in quel gesto tra il pubblico, di rimettere al primo posto l’amore sentito che non può morire, perché vivo, nel cuore e nella mente. Questo gesto, semplice, tenersi le mani, racconta ciò che nella tragedia, Shakespeare ha volutamente omesso.

di Claudio Caldarelli

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