Destra, secolo breve e meta-secolo tecnico

Il grande storico inglese Eric Hobsabawm chiama il Novecento secolo breve. Breve, perché lui individua solo nel periodo che va dalla prima guerra mondiale alla caduta del Muro di Berlino un carattere storico omogeneo, unitario. Alla luce dei risultati delle ultime elezioni politiche italiane dovremmo dire, però, che il secolo breve, proprio sulla soglia del suo esaurirsi cronologico, si è improvvisamente riallungato. Giorgia Meloni, infatti, sarà già nelle sue vesti di Presidente del Consiglio proprio intorno al 28 ottobre 2022. Ossia, a un secolo quasi esatto dalla mussoliniana Marcia su Roma, del 28 ottobre del 1922.

Si obietta che però la somma dei voti della coalizione di destra assommano, più o meno, agli stessi di sempre, intorno al 43%. Sono via via cambiate solo le facce dei leader. Prima Silvio Berlusconi, poi Matteo Salvini, ora Giorgia Meloni. E anche diversi dei volti e dei nomi in circolazione per il toto-ministri li conosciamo già fin dal primo gabinetto Berlusconi. Tanto che intenzioni, vizi, iniziali ascese e precipizi finali sono già scritti anche in questa nuova intrapresa della destra italiana. Detto in altre parole: cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Anche perché l’Europa, nella sua attuale maggioranza politica, non farà sconti al nostro nuovo esecutivo, anzi. Costituiscono infatti, di per sé, una minaccia nei confronti dell’originario cuore continentale non solo le più che dichiarate simpatie di Giorgia Meloni per governi di democratura, mix tra democrazia e dittatura. Ma anche le sue dichiarazione circa il prevalere delle leggi nazionali su quelle europee, insieme a diversi punti del suo programma economico. E il quotidiano, costante crescere del nostro spread, differenza tra valore dei titoli di Stato italiani e tedeschi, rimbomba come un brontolio lontano ma distinto di tuoni. Ricordiamo che a far cadere l’ultimo Berlusconi fu proprio il vertiginoso crescere di tale valore fino quasi a toccare quota 600. Al momento di scrivere siamo su quota 250, tenendo anche ben presente che il debito pubblico italiano negli ultimi due anni di pandemia ha sfondato ogni limite europeo consentito. Siamo fuori di 2.770 miliardi di euro, con il contatore che continua quotidianamente a girare verso l’alto, esponendosi al sempre incombente attacco speculativo internazionale.

Tutte queste obiezioni e considerazioni sono vere. Questo non toglie che un decisivo, significativo salto politico si è ugualmente concretato. E se a sdoganare, recentemente lo ha rivendicato proprio lui, la destra fascista fu un proclama dall’alto proprio di Berlusconi, oggi è invece un consenso maggioritario dal basso a sbloccare un interdetto storico-costituzionale. Maggioritario, relativamente ai fini della formazione di un governo, perché non è ancora la maggioranza degli elettori, raggiungendone la destra di Meloni solo il 26%. Purtuttavia quel paletto antifascista profondamente conficcato dentro la nostra Costituzione formale è stato schiantato.

Certo, gli elettori di oggi non sono quelli di cento anni fa. Di tanti di quelli della proclamazione della Repubblica e della sua nuova Costituzione antifascista di settanta anni fa, però sì. Così sembra di tornare a quella celebre definizione del fascismo come autobiografia di una nazione, coniata dal giovane liberale torinese Piero Gobetti, morto nel 1926 per i postumi di una pesante aggressione fisica delle camicie nere.

Questo perché l’Italia e gli italiani non hanno mai veramente fatto i conti con il proprio passato fascista. Diversamente dalla Germania. Tra il 1963 e il 1965, infatti, si celebrò il Processo di Francoforte, proprio contro i crimini tedeschi consumati ad Auschwitz. Oltre a quello di Norimberga istituito dagli americani e loro alleati vincitori. Noi italiani, invece, non li abbiamo mai fatti, perché – nonostante la Costituzione vietasse la ricostruzione di un partito fascista – a volere rappresentato in  Parlamento un partito similare furono gli americani. Questo in funzione anti Unione Sovietica e contro quel Partito Comunista Italiano che era sia alleato dell’Urss, sia il più grande forza comunista dell’Europa occidentale. In tale funzione, d’altronde, gli Usa utilizzarono e immisero nelle nostre istituzioni anche la mafia. Eravamo il fatidicoFianco Sud della Nato. Fianco estremamente critico, debole agli occhi degli americani, e ogni mezzo – legale o illegale che fosse – era consentito per puntellarlo. E, d’altronde, che i nostri servizi segreti pullulassero di dirigenti, agenti e manodopera fascista stragista non è stato mai un mistero. Ma proprio contro quelle efferate stragi la nostra Repubblica antifascista ha utilizzato i vari procedimenti svoltisi per meglio occultare, insabbiare meglio la verità storica e processuale. I superstiti dello sconfitto regime fascista furono sussunti nell’ombra dei vincitori per coltivare il giardino del loro sordido, inconfessabile potere. E i vincenti non processeranno mai sé stessi.

Difficile pensare che i trionfatori delle nostre ultime elezioni vogliano ora chiudere definitivamente il prolungamento di quel secolo breve che il nostro Stato formalmente antifascista non ha mai sostanzialmente voluto chiudere. Anche perché i valori occidentali della politica, intesa come cammino dei diritti democratici e sociali, stanno progressivamente scivolando lungo un inesorabile piano inclinato. È il piano determinato dall’ascesa di un altro tipo di dominio: quello delineato dal grande apparato senza confini nazionali della tecno-scienza. Così tale declino sembra convergere con le tendenze neo-autoritarie della destra mondiale. L’Apparato della Tecnica mondiale, però, è strutturalmente oltre i confini. Sarebbe, infatti, d’ostacolo alla sua ulteriore espansione ogni altra forma di sovranismo, proprio perché nazionalista, ossia non globale, locale.

La democratura, dunque, è in contraddizione con la principale tendenza planetaria del presente. E in contraddizione persino  minore. Decisamente maggiori, infatti, sono gli ostacoli e le minacce di dimensioni altrettanto globali, senza alcun confine geografico e politico. Crisi ambientale e climatica, anche nel loro aspetto riferito alle carenze energetiche, sono le autentiche sfide da vincere nel nostro metasecolo tecnico.

di Riccardo Tavanidestra

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