Curvati al tempo e alla subalternità sociale

L’amore è una battaglia di classe: classe dominante contro classe subalterna. Classi sociali che si interpongono sulle esistenze di figli senza speranze. Unica speranza per non impazzire è il ricorso acritico alla religione su cui riporre le proprie frustrazioni. Uno scontro di classi, maschile e femminile, curvato dal peso del tempo e dalla incapacità di stare dritti su se stessi con la forza dei sentimenti.

L’erotismo si trasforma i crudeltà, così l’amore tra la padrona e il servo, che si rifiutano di accettare, sconvolge la loro quotidianità.

 Al Vascello di Roma, Leonardo Lidi mette in scena “La signorina Giulia” di August Strindberg,  con Giulia Vigogna, Christian La Rosa e Ilaria Falini. Un monologo a tre, dove il silenzio non ha spazio, se non nella mente dei protagonisti che non riescono ad uscire dalla piccolezza di una esistenza mediocre.

“Quando lo spazio è troppo piccolo fai l’amore con chi c’è, con l’ultimo uomo sulla terra, lo contendi con l’altra donna, cerchi di sedurlo sapendo già che tra pochi attimi lo odierai…”

Tutto consumato in una notte, lunga una vita intera, in cui capiamo quanto siamo curvi, sotto il peso del tempo che, tra passioni e liti furibonde, tra erotismo e odio viscerale, tra subalternità alla padrona e alla donna, così come alla serva, rimaniamo disillusi senza speranza e senza futuro. Qui, in questo spazio ristretto, prigionieri della condizione sociale alla quale non ci si ribella, ma si contiene nel dolore e nella sofferenza, qui, la vita è più dura e brutale del lavoro da servitore.

Il monologo è il partorire con violenza interiore e la sua inesorabile crudezza, la vita reale alla quale si vuole fuggire per fuggire dalla propria condizione. Questa è la forza e la disperazione di Giulia quando si ritrova prigioniera della sua trappola, con il servitore: “…voi credete che io non possa vedere il sangue? Mi credete tanto debole? Oh! Ma io vorrei vedere il tuo, di sangue, è tutto il tuo cervello sopra un ceppo…tutto il tuo sesso vorrei vederlo galleggiare in un lago di sangue!…e credo che potrei bere nel tuo cranio; che potrei immergere i miei piedi nelle tue viscere; che potrei sfamarmi col tuo cuore arrostito allo spiedo!

Tu credi che io sia debole, credi che t’ami, perché il mio grembo ha desiderato il tuo seme…”

Forza brutale di donna disperata, vomitata sulle spalle ricurve di un uomo servo di se stesso e della sua condizione vissuta con disprezzo verso la sua condizione stessa. Così lo scontro donna-uomo, padrona-servo,  assume una connotazione feroce dove non c’è posto per l’amore ma solo per l’odio, un odio atavico, per una subalternità antropologica (come mi ha suggerito il mio amico Corrado) che non conduce alla liberazione dalla schiavitù sociale e mentale, ma alla autodistruzione interiore di ogni speranza per un oggi che è mancanza di futuro.

di Claudio Caldarelli

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