La stranezza

Quella sera del 9 maggio 1921 al Valle di Roma, per il pubblico presente è un vero terremoto teatrale. Luigi Pirandello rappresenta Sei personaggi in cerca d’autore. La scossa scenico-simica è talmente forte che a fine spettacolo che la platea si spinge fino all’orlo della rissa tra detrattori e sostenitori del grande drammaturgo nazionale.

Non è, infatti, soltanto una messa in scena, ma una mise in abyme, una messa in abisso della realtà dentro la finzione e viceversa. È la vertigine – come davanti a due specchiere contrapposte – della reduplicazione all’infinito del teatro nel teatro.

Il film La stranezza, di Roberto Andò, aggiunge un terzo elemento di vertigine: il cinema. Medium quest’ultimo del quale Pirandello ha consapevolezza e con il quale si confronta. Nel 1916 scrive il romanzo, Si gira, ripubblicato successivamente nel 1925 con il titolo di Quaderni di Serafino Gubbio operatore. La sua relazione con il cinema, però, è rimasta all’irrisolvibile stato di attrazione e repulsione insieme. Forse perché gli sfugge proprio questa possibilità di abissale triplicazione, essendo anche i mezzi tecnici del tempo ancora inadeguati all’impresa.

Ci prova Roberto Andò attraverso una messa in scena di completa finzione cinematografica che si fa originaria realtà teatrale, ossia vertiginosa indistinguibilità tra finzione e realtà. E lo fa attraverso tre principali maschere cine-teatrali. Quella di Toni Servillo nel ruolo di Luigi Pirandello che gli è magistralmente congeniale. E quella sorprendente di Salvo Ficarra e Valentino Picone nei panni di due cassamortari scombinati sì,  ma candidamente morsicati e vivificati dalla passione per il teatro.

L’espediente narrativo serve a restituirci l’attualità della scossa tellurica che Pirandello impresse a tutto il teatro italiano ed europeo e che nel 1934 gli valse l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura. Non solo il teatro, ma tutta la cultura contemporanea non sono pienamente comprensibili senza quel cruciale epicentro scenico-sismico. I toni di commedia non sono affatto fini a sé stessi. Essi, infatti, ci mostrano quell’umile drammaticità e comicità della reale vita quotidiana che nelle mani di un grande autore sale su un palco teatrale e si eleva a rappresentazione di senso esistenziale. E in questo si fanno a pieno titolo fattore di attrazione e veicolazione verso una forma d’arte che ne svela il sottosuolo, e ne esprime così il senso più abissalmente autentico.

Un raro caso in cui nel loro conflittuale binomio godibilità serietà si riflettono, assumendo magistralmente contenuti e forme l’una dell’altra.

Riccardo Tavani

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