Afghanistan, la faccia nascosta delle rivoluzioni delle donne

Le donne dell’Afghanistan che sono meno esposte sui media internazionali rispetto alle compagne iraniane, sono scese in piazza ben cinquanta volte dal ritorno dei taleban.

«La prima volta pensavo che non sarei tornata a casa. Pensandoci non avevo più niente da perdere, per questo l’ho fatto». Shamail – il cognome non può essere rivelato per ragioni di sicurezza – ricorda perfettamente quel 3 settembre 2021.

Diciannove giorni prima, i taleban erano rientrati a Kabul, dopo un’offensiva-lampo all’indomani del ritiro delle truppe occidentali.

Shamail, ex funzionaria del Ministero dell’Energia, racconta che avevano detto di essere cambiati, avevano fatto molte promesse, avevano illuso la popolazione che sarebbe cominciata una nuova epoca. Così, il popolo inizialmente ha voluto crederci, forse più per disperazione che per reale convinzione.

Come buona parte delle dipendenti pubbliche è stata lasciata a casa dagli ex studenti coranici e sopravvive grazie all’aiuto di organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti femminili come Women International League for Peace and Freedom (Wilpf), appena insignita del celebre Aurora prize.

Shamail, tra le fondatrici del Movement for freedom and justice, ci dice che ben presto tutti si sono resi conto che non solo erano sempre gli stessi ma anzi, il loro astio, l’inflessibilità nel rispetto del regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica, erano aumentati in modo esponenziale.

Non avevano tenuto conto degli anni passati e che ad essere mutate, principalmente, erano proprio le donne afghane.

La generazione di Shamail, 26 anni, cresciuta nei due decenni di Repubblica, non era più disposta a farsi condannare all’invisibilità sociale senza combattere. E, così, sono scese in piazza. «Noi attiviste avevamo creato un gruppo virtuale per tenerci aggiornate. Più o meno ci conoscevamo tutte. Abbiamo utilizzato il social per organizzare un sit-in nel centro di Kabul, di fronte al palazzo presidenziale. Quel 3 settembre ci siamo ritrovate in venti o venticinque. I taleban ci hanno circondato. Più che aggressivi, però, erano spiazzati. Ci guardavano senza comprendere che cosa stessimo facendo. Solo quando un ragazzo ha cercato di fotografarci sono intervenuti e l’hanno picchiato. A noi, invece, non ci hanno toccato, quella volta», aggiunge Shamail. Le altre – oltre cinquanta finora – sì.

Ben presto, il regime fondamentalista ha iniziato la caccia alle ribelli. Decine – denunciano le attiviste – sono finite in cella, tutte sono state minacciate. La stessa Shamail vive in clandestinità, spostandosi da una casa all’altra. Per questo, durante la conversazione, non mostra il volto e chiede di non dare dettagli che possano contribuire a localizzarla. Le proteste si svolgono a sorpresa, sempre in luoghi diversi, per minimizzare le conseguenze.
Il rischio resta, comunque, alto.

Shamail ha paura, però non molla.

«Non combattiamo solo per noi, bensì per tutti gli afghani. Anche gli uomini sono oppressi dai taleban, come dimostra la recente svolta di un’applicazione letterale della sharia e la conseguente ripresa delle punizioni e delle esecuzioni pubbliche. Eppure questi ultimi sono presenti in pochi, pochissimi alle manifestazioni delle attiviste. Questa è la principale differenza con l’Iran. A Teheran, i ragazzi accompagnano le marce femminili. Da noi, purtroppo, ancora no», spiega Mahbouba Seraj, 75 anni, tra le più note attiviste afghane, appena intervenuta in Italia all’evento promosso da Women In International Security (Wiis), con il supporto del ministero degli Affari Esteri.
Seraj, pur potendo, ha rifiutato di lasciare Kabul dopo il ritorno dei taleban. «Sono stata in esilio per ventisei anni, dal 1978 al 2003. L’Afghanistan è il mio Paese, non voglio più andare via».

L’attivista e giornalista è consapevole del progressivo peggioramento della condizione femminile. La separazione fra i generi, ossessione dei taleban fin dagli anni Novanta, è di nuovo legge: le donne non possono uscire a volto scoperto, proseguire gli studi dopo le elementari, viaggiare da sole per più di 78 chilometri, prendere la patente, sedere al fianco di un automobilista maschio, andare al parco.

«Ci hanno strappato i diritti che avevamo conquistato, uno dopo l’altro», dice Mahbouba. Fuggire di fronte a questo dramma sarebbe, tuttavia, un tradimento nei confronti delle “sue ragazze”. Definisce così le 16 giovani accolte nel rifugio che dirige da quattro anni, l’unico per vittime di abusi. «Molte organizzazioni sono andate via per paura. Le comprendo. Ma io non me la sono sentita. Le ragazze non hanno nessun altro, come faccio a chiudere?» Per loro, Mahbouba ha scelto di resistere. La creazione di reti per aiutare quante sono in maggiore difficoltà è l’altro fronte della lotta delle afghane.
«Una lotta invisibile, purtroppo. Più dei taleban, il maggior terrore mio e del resto delle donne è quello di essere dimenticate. Che il nostro grido sia rivolto a un mondo ormai sordo. Per questo non mi stanco di chiedere alla comunità internazionale di non lasciarci sole. Capisco la decisione di ritirare gli ambasciatori ma potrebbero inviare ugualmente del personale diplomatico di grado inferiore in modo da essere aggiornati su quanto accade. Il silenzio globale è l’opportunità per il regime fondamentalista di aumentare la pressione. Lo abbiamo visto: dal 15 agosto 2021, la repressione è cresciuta, mese dopo mese. Non ci hanno, però, fermate. Per questo, spero ancora di poter vedere afghane e afghani liberi di scegliere il proprio governo e partecipare con pari dignità alla vita pubblica e civile».

Stefania Lastoria

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