Il festival, il voto, il potere della mummia

Ormai agli appuntamenti elettorali solo si reca la iucunda senectus, la gioiosa senilità. Alle ultime elezioni regionali di Lazio e Lombardia hanno partecipato solo il 40% degli aventi diritto, ed erano in schiacciante maggioranza anziani. Tanto che presso i seggi potrebbero e dovrebbero mettere anche postazioni di medici e geriatri per le varie patologie dell’età, approfittando dell’occasione per visite e prescrizioni gratuite, così che essi permangano in buona salute, continuando a garantire l’esercizio del massimo rito collettivo di una democrazia.

L’opera capolavoro del filosofo marxista francese Guy Debord, fondatore dell’Internazionale Situazionista, s’intitola La società dello spettacolo, del 1967. È questo il tipo di società cui è giunto il capitalismo nella sua fase estrema. Un assetto che ingloba e sottomette a sé ogni aspetto dell’esperienza e dell’espressione umana. Su questa falsariga si potrebbe così sostenere che le varie fasce sociali e di età italiche – nella rapida successione cronologica tra Festival di Sanremo ed elezioni regionali – si sono agglutinate insieme solo nelle fantasmagoriche cinque notti canore nazional-popolari, per tornare immediatamente a scindersi già all’alba del giorno successivo davanti ai portoni dei seggi elettorali che si schiudevano.

A rendere più singolare lo scoccare di un micidiale arco voltaico tra politica e Festival è stata la partecipazione alla serata inaugurale di Sanremo dell’attuale Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Cosa che nessun suo predecessore si era mai neanche lontanamente sognato di fare. Prima, infatti, la distinzione tra alta rappresentanza politica istituzionale e bassa competizione canzonettistica non poteva che mantenersi netta. Doveva essere inequivocabile che quest’ultima era sottomessa alla prima, quale sua ancella, strumento di distrazione, svagamento ai fini del consenso di massa al potere politico. L’Italia, però, sempre più vertiginosamente, dal crollo del Muro di Berlino,  si è andata definendo quale spazio geo-strategico terrestre in cui abbaglio e abbaio, istituzionale e canoro, si fondono in un’unica folgorante sintassi di potere politico-mediatico chiamata appunto Sanremo. Dopo il Quirinale, d’altronde, il Festival è finora la più alta istituzione nazionale che persiste nel negare la conduzione a una donna, soprattutto se laica, e che continua, invece, a consentirla solo a uomo, per di più curiale. Magari – dopo il primo sfondamento del tetto di cristallo a Palazzo Chigi da parte di Giorgia Meloni – qualcosa cambierà.

Lo preconizza su Twitter la scrittrice, drammaturga, giornalista, attivista politica Valeria Parrella: “Verrà, verrà il Sanremo direzione artistica Caterina Caselli, co-conduzione Fiorella Mannoia, cinque maschi distinti, uno a sera, con tre cambi d’abito a leggere cartoncini e monologhi, un mazzo di fiori e via.”. Facendo scendere questi maschi – si potrebbe aggiungere – la famosa scala indossando scarpini da calcio con i tacchetti. Non è, però, esattamente quello che si prefigge l’attuale governo, che sta già profilando la decapitazione del vertice Rai e dello stesso direttore artistico del Festival Amadeus, accusati di troppo aperturismo a “sinistre” oscenità politiche e di costume.

Sanremo, in realtà, aldilà della permissività e trasgressività di superfice, è la continuazione della mummificazione del potere patriarcale con mezzi più avanzati di quelli parlamentari. Lo scrive la storica e critica dell’arte Barbara Martusciello in suo post su Facebook: “Al Festival di Sanremo, le donne sul palco, quelle non in gara, che non cantano, sono di passaggio, ospiti “temporanee”, sollecitate a raccontarsi nelle loro vesti dolenti, problematiche… in una società essenzialmente ancora patriarcale e in una kermesse dove ancora domina una cultura maschilista, che finge benevolmente di non esserlo”. E i risultati si sono visti. A parte quello a Ornella Vanoni, i grandi omaggi alla carriera sono stati tutti maschili. Unicamente maschi i cinque finalisti e il vincitore della gara. Sul mitico palco dell’Ariston continuano a essere davvero messe in scena Due vite: “Siamo i mostri e le fate”, canta Marco Mengoni. I mostri che si nascondono dietro le odorose fate sottomesse. L’assoggettamento seppur soave del femminile come forma  storica di una Ur-dimensione, ossia di un fondamento ancora più originario di quello patriarcale di cui pure è oscena espressione.

Il potere della mummia, infatti, non è affatto confinato dentro un mero dato anagrafico. All’opposto! Gli artritici che si recano ancora a depositare una reliquia cartacea nelle urne non gli possono assolutamente bastare. Ha bisogno esistenziale di schiere giovanili per perpetuarsi, eternizzarsi. La neo-società dello spettacolo, nella versione algoritmica, tecno-interiorizzata di kermesse come quella sanremese serve ad attrarle, mostrarle, ingoiarle nel suo avido ventre, dentro la rutilante voragine della politica, della democrazia nell’inesorabile era del suo tramonto.

Riccardo Tavani

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