Ricercatori precari, una condizione vergognosa nel sistema italiano

Terminato il percorso di studio universitario con il conseguimento della lauera magistrale molti neo laureati preferiscono proseguire il percorso di studi scegliendo la strada del dottorato di ricerca. Molti per passione, altri per costruirsi un curriculum mentre cercano il lavoro per cui hanno studiato. Chi sceglie per passione vorrebbe una carriera ben diversa da quella che gli si prospetta, e già perché a fronte dei loro sacrifici nello studio, di quelli economici sostenuti dalle loro famiglie per manterli nel loro percorso, spesso lontano da casa e in tanti all’estero, saranno sottopagati e precari. Infatti quello che è evidente, del sistema universitario italiano, è che esso investe in alta formazione post-laurea e poi disperde quasi tutto costringendo i dottori di ricerca a trovare altrove dove investire le proprie competenze e spesso lo fanno all’estero. È assurdo il fatto che la spesa formativa se la accolli il nostro paese e i vantaggi ne traggano invece altri.

I dottorandi percepiscono un assegno mensile di borsa di studio, quando va bene, quando no svolgono ricerca gratis pur di conseguire il titolo per avere future e più appetibili possibilità di lavoro. Alla fine del dottorato li attende la precarietà con contratti a tempo determinato e con paghe da impiegato comunale, con tutto il rispetto per gli impiegati comunali.

A complicare di più la situazione è stata la Legge 240/2010 che rende più difficile la loro assunzione a tempo indeterminato. Ai 3 anni di dottorato seguono quasi sempre 5 anni da ricercatore a tempo determinato propedeutici ad altri 3 dopo di che si ha la speranza di agganciarsi al meccanismo che porta a prevedere uno sbocco come professore associato. In pratica dopo il dottorato se è fortunato e avrà continuità nel percorso dopo 10/11 anni di precariato potrà avere una posizione stabile, ovvero avrà circa 40 anni, un’età della vita in cui si dovrebbe aver già costruito e consolidato il proprio futuro. La frustazione allora prende il sopravvento e la passione per la ricerca lascia il posto alla concretezza quotidiane della vita. Molti abbandonano e a farne le spese è il progresso i tutti i campi della società civile. Uno spreco di persone altamente qualificate in cui abbiamo (con le nostre tasse) investito fino a circa 140.000 euro pro-capite.

Questa debolezza nell’investire in ricerca appare più una scelta politica che con i continui tagli ha demolito il sistemma pubblico della ricerca, lasciando al contempo ai privati ampi spazi di conquista. Un suicidio.

Oggi l’unica possibiltà di riallineare il nostro paese ai livelli di altre nazioni europee che eccellono nella ricerca è l’utilizzo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza oltre che saper utilizzare sapientemente finaziamenti, mirati per la ricerca, sia nazionali che europei. Quello che occorre è che il loro lavoro venga riconosciuto come tale, che venga retribuio dignitosamente e che il loro percorso di carriera avvenga in continuità, ovvero stabilmente.

 Livia Scatolini

 

 

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