La bellezza salverà o perderà il mondo?

Quando si parla di arte, di bellezza, o di quel particolare campo di studio che è l’estetica, la filosofia dell’arte, sembra che ci stiamo occupando di qualcosa di superfluo. Di qualcosa che non attiene strettamente alle primarie necessità umane. Soprattutto di questi tempi di migrazioni bibliche, mutamenti climatici, pandemie, guerre alle porte di casa, crack e stupri economici di massa, carestie energetiche, forse anche alimentari. Se però pensiamo alla radice ancestrale, arcaica di certe feste e tradizioni, sappiamo che esse costituiscono una necessità impellente di ristabilire la possibilità di sopravvivenza di una comunità scossa da una grave minaccia interna o esterna. Apocalisse culturale la chiama Ernesto De Martino, uno dei più grandi antropologhi e pensatori mondiali. La festa arcaica popolare è una risorsa esistenziale cruciale. Al di fuori di essa c’è l’apocalisse psicopatologica, ossia la fine di un mondo – in senso vero e proprio. E alla radice della festa arcaica c’è proprio l’arte, la bellezza. Così come dai riti dionisiaci che precedono l’epoca aurea del pensiero greco antico c’è l’origine di una delle più alte forme d’arte: il teatro, la grande tragedia e poesia greca. Ce lo dice Nietzsche nel suo saggio Nascita della tragedia. E per origine, nascita, noi dobbiamo intendere non un punto X fissato una volta per tutte nella notte dei tempi, ma qualcosa che è ancora in atto, che cammina sotto la pelle viva del presente, della nostra esistenza. E già qui c’è un nesso anch’esso originario, ossia tutt’ora in atto, tra festa, arte, bellezza e pensiero, riflessione critica. Un nesso niente affatto superfluo, ma anzi indispensabile alle necessità vitali di una comunità.

 All’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina è tornato alla ribalta il nome di Fëdor Dostoevskij. Specialmente in questi giorni, è necessario, ossia vitale, richiamare un celebre, passo del suo romanzo L’idiota. Il passo è questo:

È vero principe che una volta avete detto che la “bellezza salverà il mondo”? Signori» prese a gridare a tutti, «il principe afferma che la bellezza salverà il mondo! ed io affermo che idee così frivole sono dovute al fatto che in questo momento egli è innamorato… Non arrossite principe, mi impietosite. Quale bellezza salverà il mondo?.

La domanda è rivolta al Principe Miškin dal giovane Ippolit, malato e tormentato, simbolo della stessa umanità sofferente. Il principe non risponde. Così come – nei Fratelli Karamazov – il Cristo non risponde alle accuse che gli rivolge il Grande Inquisitore.

Quella domanda resta, però. Resta tanto più impellente proprio in momenti come questi. Momenti d’atmosfera da apocalisse culturale, proprio perché accanto all’acutezza dei drammatici eventi presenti la bellezza ci ha abbandonato. La bellezza è stata fatta essa stessa merce, fattore di potere, di dominio, di controllo e sviamento delle coscienze. Una vera e propria arma di distrazione, distruzione e maledizione di massa.

Eppure, l’arte continua a possedere – intrinsecamente – una possibilità di bellezza infinita: la potenza della giustizia. Giustizia esistenziale. Prendiamo il dipinto Corpo di Cristo nella tomba, di Hans Holbein il Giovane, del 1521, conservato nel Museo d’arte di Basilea. Nell’Idiota Dostoevskij fa dire al principe Miskin: “…quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno”. È invece proprio a questa opposizione della classica bellezza che Dostoevskij attribuisce una possibilità di salvezza del mondo. Perché? Perché vi si mostra non la bellezza, ma la bruttezza del Cristo in fase di decomposizione cadaverica. Si sa che il pittore si mise davvero davanti al cadavere di un annegato per rappresentare Cristo. La stessa cosa fece Caravaggio nel 1604, con una prostituta affogata nel Tevere, per rappresentare La Morte della Vergine.

Eppure, il pittore restituisce abissale giustizia a Cristo proprio dove gli è stata inflitta iniquità e sevizia. Come riesce in questo? Ostentando, non nascondendo la verità del suo strazio. Ma alla verità mostrata da dove si arriva? Proprio dalla giustizia, quale giustezza nel mettere insieme, giustapporre, comporre tutti i diversi e anche contrastanti elementi grafici e cromatici in gioco. In questo gesto dell’artista c’è già resurrezione esistenziale. Quella di luce, fulgore divino che avvolge ed eleva un attimo dopo il corpo in putrefazione ne è rappresentazione simbolica. La più autentica, vertiginosa arte è un esercizio faticoso, spossante, ma sublime di giustizia.

Se ogni attività umana prendesse esempio dalla capacità di esercitare, praticare giustizia che c’è nelle più autentiche opere, forse capiremmo che non c’è proprio nulla di superfluo nell’arte. Anzi!, essa testimonia la necessità vitale di ritessere continuamente la tela lacerata dell’intera giustizia esistenziale che avvolge noi e ogni altra cosa. Così come la festa arcaica tentava di ritessere quella strappata dall’apocalisse culturale, sull’orlo della fine del mondo.

 Riccardo Tavani

 

Print Friendly, PDF & Email