Air – La storia del grande salto

Ben Affleck e Matt Demon lo interpretano e lo producono; il primo lo dirige anche. È la storia del grande salto compiuto dal marchio Nike nel mondo del basket, attraverso la creazione di una scarpa concepita, disegnata e realizzata su misura ed esclusivamente per uno dei giganti assoluti di questo sport. Michel Jordan, però, al tempo non era ancora in NBA, eppure a quella scarpa è dato già il suo nome: Air Jordan. NBA sta per National Basketball Association, ed è la massima lega di basket in Usa e Canada, composta di 30 squadre.

Il film racconta la concorrenza serrata tra i principali marchi di abbigliamento sportivo per egemonizzarne il mercato, attraverso la sponsorizzazione di squadre e campioni, già consacrati, lì per esserlo o anche solo promettenti. Concorrenza fatta a suon di potenti cannoneggiamenti e bombardamenti in ammassi di bigliettoni verdi. Più ne dissemini a tappeto, più aumenti la possibilità di vincere la guerra. Non basta, però. Devi avere una strategia, una tattica vincente. Cervelli che sappiano elaborarla e attuarla. Nike è ultimo in graduatoria tra i grandi marchi dominanti, quali Adidas e Converse. Ha assunto, però, Sonny Vaccaro, uno che segue la squadre di basket che vanno dai licei, all’università, fino alla NBA.  

Il film, dunque, mostra come il capitalismo americano entra pesantemente e condiziona lo svolgimento, lo sviluppo, le sorti non solo del basket, ma di tutto lo sport più in generale. Ossia, non nasconde, ma anzi esalta il ruolo spregiudicato del capitalismo, per utilizzare, piegare lo sport alla sua logica del profitto – costi quel che costi. Perché? Perché in fondo – secerne come morale il film – si determina una sorta di compensazione di carattere sociale. E questo elemento di giustizia compensativa è introdotto e fatto affermare proprio da Deloris, la madre di Michel Jordan, egregiamente interpretata da Viola Davis. Elemento che potrebbe riassumersi nel noto Chi usa chi?

In questo senso il film non può fare a meno di mostrare la faccia di un’esaltazione diretta dell’intervento del capitalismo anche nel cinema. Una faccia non certo sconosciuta nella storia e nella critica del cinema, non solo hollywoodiano. Noto il giudizio estetico-filosofico di Theodor W. Adorno, che riparandosi negli Usa per fuggire al nazismo in Germania, conosce da vicino anche il cinema, come parte integrante di quella industria culturale, che sguarnisce le risorse critiche degli spettatori per indurli a un’adesione, sottomissione passiva ai valori precostituiti dell’ideologia capitalistica del profitto. Perché è chiaro che tanto più le arti dello spettacolo non servono al capitalismo per realizzare profitti economici, ma sono principalmente utilizzati per diffondere i proprio valori ideologici. La merce spettacolo, infatti, ha la peculiare qualità di essere massimamente adatta ad affermare l’ideologia stessa della merce.

L’industria del tabacco, ad esempio, lo scorso secolo investì notevoli capitali nel cinema per costringere produttori, registi, scrittori e attori non solo ad accendere continuamente sigarette nelle scene, ma anche a mostrarsi in occasioni pubbliche con una sigaretta tra le dita. Si sa che, proprio a causa di tale imposto abuso di tabacco, molti interpreti morirono o restarono pesantemente lesionati. Morti e malattie per le quali le multinazionali del tabacco furono poi condannate a sborsare cifre astronomiche di compensazione, non solo nei loro confronti, ma anche per cittadini che avevano subito il fascino dell’attore o dell’attrice appesa a un eterno filo di fumo di una sigaretta. Tanto che c’è stato un lungo periodo in cui le sigarette sono completamente sparite dagli schermi.

Come la Nike realizzò profitti da capogiro vendendo a persone comuni quella scapa indossata da Michel Jordan, così furono smerciati miliardi di pacchetti di noti marchi del tabacco in tutto il mondo anche grazie al cinema. Magari è per questo che in Air – La storia del grande salto non si vede neanche un sigaretta accesa. Lo si può notare, invece, sempre più spesso in un numero impressionantemente crescente di film. Scene e interpreti con una o più sigarette sempre accese, senza alcuna necessità drammatico-narrativa. Il tabacco è tornato alla grande e giganteggia sugli schermi.

Proprio in questi giorni, ad esempio, si può vedere non solo Toni Servillo fumare in ogni scena, ma addirittura Bentivoglio-Casanova tirare la pipa. Se lo scopo di un film diventa anche quello di s-merciare tabacco, come può non vedere conseguentemente limitata la propria finalità artistica? Non si può essere al servizio di due padroni. Sembra emergere una proporzione diretta tra numero di sigarette che appaiono sullo schermo e artificiosità, scadimento della qualità cinematografica. Il fumo quale essenza stessa della merce: inesorabile, rapido suo consumo al solo fine di essere altrettanto rapidamente riacquistata e ri-consumata, rinnovandone ideologia e prassi. Ossia lo stesso umano che si fa merce al servizio della merce astrattamente intesa, ossia di ogni tipo di merce presente e futura. Parafrasando Piero Sraffa si potrebbe dire: “Produzione di merci attraverso merci-uomo”.

L’arte, d’altronde, è sempre riuscita a esprimersi nonostante censure, storture, torture, imposizioni, pretese, follie del potere politico ed economico. Con lo sport bisognerebbe allineare bene altre considerazioni sull’attuale incrocio tra aspetto diretto capitalistico economico e indiretto massmediatico. Compito che ora non possiamo che rimandare ad altra occasione.

Riccardo Tavani

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