Sport, lotta e arte. E lo stupore di Gianni Minà

Lo sport di Muhammad Alì, di Pietro Mennea, di Diego Armando Maradona. La politica e le lotte di Fidel Castro, di Rigoberta Menché, del subcomandante Marcos. L’arte e la poesia di Gabriel Garcia Marquez, di Luis Sepulveda, di Jorge Amado, di Eduardo Galeano. La musica dei Beatles, di Toquinho, di Mina, di Celentano. C’è questo e tanto, tantissimo altro dentro la carriera, anzi il percorso, il viaggio, di Gianni Minà. C’è questo e tanto altro dentro i suoi servizi, i suoi articoli, i suoi documentari, i suoi libri.

A ripercorrere tutte le tappe di questo lungo viaggio è la sua autobiografia, “Storia di un boxeur latino”, un nome che gli è stato suggerito da Paolo Conte, con una copertina disegnata da David Alfaro Siqueiros, pittore muralista messicano. E viaggio forse è la parola chiave della vita di Gianni Minà. Lo dice anche lui in uno dei capitoli iniziali: “Forse l’origine di tutta l’inquietudine che vivo e della sconsiderata fiducia nei viaggi e nella scoperta sta nelle tante migrazioni della mia famiglia”. Torinese, ma con sangue siciliano. Da lì veniva il nonno paterno, da lì scapparono la nonna e la madre, dopo il terribile terremoto di Messina, nel 1908. A Torino frequenta il Liceo D’Azeglio e, soprattutto, frequenta Giovanni Pische, l’eroe di guerra sulla sedia a rotelle che lo inizia al mondo magico dello sport. “Sarà banale ripeterlo – scrive Minà – ma lo sport ti addestra per davvero alla sconfitta e alla vittoria, alla lealtà e alla sfortuna, ti insegna insomma il rapporto tra allenamento e risultato, il riconoscimento e il rispetto del talento e il valore della volontà”.

Gli esordi da giornalista, invece, li deve a due maestri: Maurizio Barendson e Antonio Ghirelli, artisti delle immagini e delle parole. Sono i primissimi anni di carriera, Gianni Minà è un giovane giornalista rampante, con idee, ma chiamato a fare il lavoro sporco, umile, da appena arrivato. Lo mandano a seguire le partite della nazionale e “fare gli spogliatoi”. “Voleva dire scendere giù a parlare con i massaggiatori, con i raccattapalle, raccogliere le interviste, le voci, gli umori. Una pratica che mi è rimasta abituale. Sono sempre stato attratto dalle quinte più che dalla scena. E credo sia dietro il palcoscenico che un giornalista deve andare a ficcare il naso o ad aspettare la notizia”.

È questa capacità di andare dietro, di trovare una strada alternativa, unita a una grande empatia, al rispetto e alla curiosità per il lato umano delle celebrità che aveva davanti a rendere Gianni Minà un giornalista unico, capace di conquistare la fiducia oltre che il rispetto di chi andava a intervistare. Succederà con Muhammad Alì, che dopo una prima intervista fatta a mezza bocca, stizzito e infastidito, si scioglie sulle ultime domande, quando capisce che il giornalista non era in cerca di scoop, ma di sostanza, di verità. Succederà con Fidel Castro, dopo un’intervista record di sedici ore. Non solo empatia e sorrisi, ma anche coraggio e determinazione, come alla conferenza stampa per i Mondiali in Argentina nel 1978 quando ripete per due volte una domanda sui Desaparecidos all’Ammiraglio Lacoste, prima di essere costretto a lasciare il paese perché in pericolo. O quando viene sbattuto fuori dalla Rai, dopo una carriera al suo servizio. “Ci sono persone che non hanno il cartellino del prezzo appeso sopra” diceva Raymond Chandler, citato da Mauro Berruto su Il Foglio. Gianni Minà era una di queste. Capace di fondere nel suo linguaggio lotta, sport, arte, meraviglia, indagine, verità. “Ora so che non ci sono ricette, ma se dovessi riassumere quel linguaggio in un vocabolo, userei solo la parola stupore. Bisognerebbe sempre tentare di esprimere il proprio stupore per la vita e per la sua bellezza, così nessuno sarà disposto a farselo togliere”.

Lamberto Rinaldi

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