Una storia d’amore come tante

“La colpa dei tuoi gesti insignificanti e delle tue omissioni…” non è una battuta, ma il condensato della ipocrisia e della banalità degli intellettuali “radical chic” che si credono super uomini. Una banalità di gesti consumati nel quotidiano vivere, da esserne inconsapevoli. La colpa delle colpe degli uomini che non riescono a riconoscere una storia d’amore intensa e profonda. Un rimanere eterni bambini fino alla paranoia che uccide i sentimenti più veri e più appassionati.

Al teatro Ambra Jovinelli di Roma va in scena “Il Dio Bambino” scritto nel 1993 dal duo Gaber-Luporini, ma rappresentato sul palco da un ottimo Fabio Troiano con la regia di Giorgio Gallione. L’interpretazione del monologo sottolinea la maturità di Gaber-Luporini nello scrivere un atto così dirompente da mettere sotto accusa tutto il mondo accademico intriso di false morali e comportamenti antitetici rispetto al ruolo che la società gli ha assegnato. Ipocrisia e menzogna. Banalità e falsità. Tutto messo a nudo dalla ironica gestualità rappresentativa di Troiano che riesce, con la sua mimica, ad amplificare le ipocondria degli uomini di cultura, soggiogati dalla loro incapacità di riconoscere, nella donna, la vera intelligenza sociale.

Una storia d’amore, semplice, potente, vera, sincera e passionale, vissuta come tragedia da un uomo che è tutti gli uomini, incapaci di cogliere gli aspetti più profondi di una donna che si mette a nudo e si lascia “offendere” per vivere fino in fondo l’amore che prova.

Un palco dove tutto è smobilitato, rappresentato da un locale chiuso, con tavoli rovesciati e ciarpame. Ciarpame sotto forma di mazzi di fiori, quasi a voler indicare una speranza che tarda ad arrivare. Una attesa della primavera dopo un lunghissimo inverno durato più di venti anni. Bottiglie vuote. Bicchieri a terra. Banalità. Ipocrisia. Ma il sottofondo riempito con le canzoni di Gaber a semplificare la comprensione di un qualcosa di semplice, troppo semplice per essere vero. Ma le parole e la voce di Gaber non perdonano, mettono alla berlina la falsa modestia di intellettuali da strapazzo che rimangono bambini, legati ai loro infantilismi che non hanno niente di importante da donare. Dentro questo monologo così dirompente, c’è una figura che non vediamo, ma presente dall’inizio alla fine: Cristiana. Una donna che ama, consapevole di amare un uomo che la ama ma incapace di amarla perché aggrappato al suo infantilismo, banale. Un uomo piccolo, non di statura ma di sentimenti. Un bambino che gioca con le freccette invece di accudire la donna amata che sta per partorire.

Una prova intensa, quella di Troiano, che riesce ad inchiodare il pubblico alle sue parole, pronunciate con veemenza e maturità, ma anche con la dovuta leggerezza, tale da renderci complici della banalità degli uomini rappresentati. L’utilizzo del teatro canzone e del teatro evocazione funziona a perfezione, aiutano lo spettatore ad entrare in scena anche se la scena è scarna e priva di fronzoli. Il tutto per spingere il pubblico ad interrogarsi su come ognuno vive il suo rapporto di coppia, per poi scoprire che ognuno è dentro quella storia fatta di ipocrisia e banalità. Ma c’è una speranza, c’è uno scatto di umanità in cui l’amore torna ad essere l’elemento centrale di una coppia allo sbando, con la necessità di risvegliare la persona, dentro la coppia. Una storia d’amore, come mi dice Michela, che necessità dell’amore materno per tornare ad essere amore di coppia, così potente da cancellare l’assurda banalità dell’uomo bambino per trasformarlo in uomo maturo. Una storia d’amore raccontata con amore, dalle bellissime parole di Giorgio Gaber.

Claudio Caldarelli

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