“Basta che mi salvo io” (2)

Josè Mujica, da tutti conosciuto con il nomignolo di “Pepe”, ex Presidente dell’Uruguay, ha rinunciato al suo lauto stipendio di senatore, mantenendo solo la pensione (deve pur sopravvivere), ed ha spiegato che il momento così grave in cui versa il suo paese e l’intera umanità, a causa della terribile pandemia che ha investito il mondo, impone scelte a favore del popolo, di coloro che versano in miseria, che sono afflitti da problemi esistenziali e da insormontabili difficoltà, che non si superano da soli, perché nessuno si salva da solo. “Pepe”, che anche quando era in carica ha continuato a vivere in campagna, lontano dal capitalismo e dalle ricchezze, ha poi ammonito tutti i governi del mondo a valutare le conseguenze che questa crisi scaricherà sui più deboli e sui conseguenti cambiamenti che ne seguiranno: “ci saranno lotte e mobilitazioni perché nessuno può essere lasciato povero. Queste mobilitazioni partiranno dal basso, soprattutto da coloro che in basso sono precipitati a seguito degli eventi, e metteranno in discussione tuti i governi.” 

Come non essere spinti dalla necessità di guardarsi attorno, di analizzare la nostra situazione nazionale e di provare a ricordare, sia pure in modo breve e succinto, gli antefatti che hanno portato alla costruzione della nostra architettura istituzionale e delle motivazioni che portarono a disegnare il sistema dal quale siamo permeati e nel quale viviamo.

Il 4 marzo del 1848 fu ottriato (concesso, dal francese octroyer) dal Re Carlo Alberto lo Statuto Albertino, rimasto in vigore fino agli anni 1944 / 46, quando l’Assemblea Costituente mise mano alla nostra splendida e democratica Costituzione, che entrò in vigore a gennaio 1948. Fino all’Unità d’Italia del 1861 (mancava ancora Roma che, come noto, entrerà nel Regno d’Italia nel 1870) la Capitale era rimasta a Torino e solo nel 1864 se ne decise lo spostamento a Firenze, eleggendo Palazzo Vecchio a sede del Parlamento. Fino all’Unità d’Italia le funzioni di deputato e senatore erano assolutamente onorifiche e si iniziò a discutere di emolumenti, in un primo momento sotto forma di semplice rimborso spese, solo dopo il 1861 e la discussione, che in alcuni periodi fu aspra, ruvida e velenosa, si protrasse fino allo spirare di quel secolo. Si sviluppò un interessante dibattito sulle ragioni del pro e del contro, sicuramente degno di essere affrontato ed approfondito in altra sede, non certo in questa, il cui unico scopo è fotografare le ragioni che portarono al riconoscimento della indennità per gli eletti dal popolo ed anche i non infrequenti abusi che di tale diritto si sono verificati.

L’on. Pigafetta, ad esempio, sul problema del rimborso dei viaggi in treno o in piroscafo si scagliò contro famosi Onorevoli con queste parole: “Si domandi un po’all’on. Crispi, all’on. Nocito, all’on. Parenzo, all’on. Marzotto, e a tanti altri deputati noti od ignoti, che cosa rappresenta per essi la libera circolazione sulle ferrovie. Se non l’avessero gli affari molteplici che li chiamano or qua or là li costringerebbero a prendere l’abbonamento sulle ferrovie, il quale costa appunto 1900 lire. Ora queste 1900 non costituiscono in tal modo una indennità bella e buona, che alcuni percepiscono ed altri punto? E chi la percepisce poi? Il deputato diligente, che attende assiduo ai lavori parlamentari, e va tutt’al più avanti e indietro fra la capitale e il proprio collegio? Manco per sogno. Il biglietto gratuito giova ai deputati tanto più quanto più sono negligenti, quanto più hanno larga la coscienza, e in luogo di attendere agli affari del paese attendono ai propri od a quelli dei loro clienti, e corrono l’Italia a spese dello Stato a difendere cause, od a spacciare i loro panni. Se lo Statuto non ha saputo impedire questo abuso, non lo si tragga, dunque, innanzi quando si tratta di toglierlo. La chiameremo diaria, rimborso di spese sostenute, o con altro nome qualsiasi, che lasci intatta la lettera, se non lo spirito, il quale è stato già violato dalla libera circolazione sulle ferrovie. Oh non ci furono deputati, pubblicamente processati, che avrebbero insegnato a procurarsi l’indennità, affittando il loro libretto di circolazione? Togliamo dunque di mezzo l’abuso, lasciando tutt’al più ai deputati il libero uso della linea più breve tra la capitale ed il luogo dove hanno il domicilio civile, e assegniamo loro uno stipendio”.

Insomma, allora, si abusava dei rimborsi per spese di viaggio e ci si faceva riconoscere somme che non erano dovute, dipendenti da spostamenti non propriamente istituzionali e di servizio.

Ecco dunque affacciarsi il problema, peraltro giusto, di una indennità a favore dei rappresentanti del popolo, senza la quale la possibilità di partecipare alle elezioni sarebbe riservata alla sola classe benestante e non certo ai lavoratori, come avveniva prima della corresponsione della indennità: in quel periodo il diritto al voto era riservato per censo e votava appena il 2% della popolazione. Dobbiamo convenire che il problema non è il se concedere l’indennità ma il quantum della stessa! O no?  Del resto, lo stesso On. Pigafetta, sul quale ci stiamo basando e che sembra, per certi versi, un nostro contemporaneo, si manifesta strenuo fautore del riconoscimento della indennità mensile e così prosegue, per portare acqua al proprio mulino, citando il caso delle equivalenti 30.000 lire di indennità riconosciute ai deputati americani: “quelle 30.000 lire consentono di rimanere onesti a molti, che si lascerebbero comprare come gli altri. Se quella somma non basta a preservare tutti da turpi simonie, certo queste aumenterebbero, se nulla avessero di stipendio. Il male è nel costume, è nel sangue guasto che corre in tutte le vene della vita pubblica, e ci vuol altro che la gratuità dell’ufficio di deputato per guarirlo! D’altronde, siamo giusti. Non abbiamo noi, nella nostra Camera esempi di corruzione? Non abbiamo deputati che nessuno sa come vivano, per non dire che lo si sa pur troppo? …Gli esempi abbondano, e il popolo mette i nomi. Certo le cose si fanno per bene…intanto al popolo nessuno gli leva di capo, che a fare il deputato ci si guadagna. Eh sì, andate là, dicono a più d’uno, non solo contadini od operai, ma gente della più raffinata coltura, andate là, che già, in un modo o nell’altro…”

Insomma, già allora, niente di nuovo sotto il sole! Stesso tono enfatico, stessa sciatta esternazione di inesistenti sacrifici per il bene comune e stessa volontà e cupidigia ben compresa dall’allora popolo al quale si riferiva il Pigafetta, quel popolo che così mirabilmente esprimeva il suo conciso pensiero: a fare il deputato ci si guadagna!

Sarebbe ben ora che qualcuno dei nostri rappresentanti iniziasse a dimostrare di avere a cuore le sorti di quel popolo al quale continua a rivolgersi e che invece non ha bisogno di vuote chiacchiere ma di fatti tangibili. Sarebbe veramente ora che sacrificassero parte dei lauti compensi e li destinassero a favore dei bisognosi. E per favore, risparmiateci vuote ciance e richiami alla demagogia! Sappiamo bene che non saranno i soldini che lascerete (??) a risolvere i problemi ma sicuramente tanti artigiani, piccoli commercianti, fornitori di servizi, lavoratori stagionali e giornalieri, professionisti e dipendenti della grande e piccola distribuzione si sentirebbero meno soli. Dimostrate che questa richiesta altro non è che errata, superficiale e provocatoria (tiè!). Rinunciate almeno ad una parte. Emulate Josè Mujica, diventate tanti piccoli Pepe!

Pietro Lucidi

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