Come ti infinocchio il popolo, ovvero dalla democrazia alla democratura

Nel dicembre dell’anno scorso, l’ISTAT ha certificato che in Italia le retribuzioni da lavoro dipendente sono scese del 10% rispetto al 2007, mentre i ricavi delle aziende sono aumentati.

L’Italia è l’unico paese europeo con questo trend al ribasso: nel trentennio 1990-2020 un calo di quasi il 3%, contro un aumento del 30% in Grecia, del 31 in Francia, del 33 in Germania e di oltre il 200% in Estonia, Lettonia e Lituania.

A gennaio Eurostat ha pubblicato i dati da cui risulta che i salari italiani sono inferiori di 3.560 € l’anno rispetto alla media europea; ma sono inferiori di 10.184 € rispetto ai francesi e di 14.453 € rispetto ai tedeschi.

Ad ogni buon conto, in Germania quest’anno si prevedono un aumento del 5.5% delle retribuzioni e un bonus di 3.000 € agli statali, per compensare l’inflazione.

Forse, però, qualcuno pensa che i lavoratori dipendenti nostrani siano già troppo ricchi. Infatti nel loro insieme pagano l’80% delle imposte dirette, pur essendo il 50% dei contribuenti, mentre l’altra metà (comprese le famiglie Berlusconi, Moratti, Del Vecchio e Benetton, per fare qualche esempio) paga soltanto il restante 20%. Poverini, si sa che da noi i datori di lavoro risultano mediamente più poveri dei loro dipendenti.

Di fronte a tanta sperequazione, il governo è passato all’azione, sacrificando il meritato riposo dei giorni festivi: domenica 31 maggio incontro con i sindacati, lunedì 1° maggio consiglio dei ministri, preceduto dallo spot pubblicitario della Meloni nelle sale di Palazzo Chigi. Dichiarazione finale (senza la presenza dei giornalisti, non sia mai che facessero domande): abbiamo tagliato il cuneo fiscale, abbiamo fatto aumentare gli stipendi!

Ma non è proprio così.

Prima di tutto, il confronto con i dati europei ci fa capire che il problema della povertà del lavoro non è stato efficacemente affrontato.

E poi, quell’aumento non è dovuto al taglio del cuneo fiscale, bensì del cuneo contributivo. Può sembrare la stessa cosa, ma la differenza c’è ed è importante. Poiché la manovra è stata fatta a debito (cioè non si sono trovate, o cercate, le risorse per finanziarla), se si fosse tagliato il cuneo fiscale, quel debito sarebbe stato a carico dell’insieme dei contribuenti.

Invece si è preferito tagliare i contributi INPS dei dipendenti. Così facendo, la manovra è a carico dell’INPS, cioè delle future pensioni degli stessi lavoratori: si paga il beneficio di oggi con la pensione di domani. E questo è matematico. Inoltre, il piccolo aumento sarà comunque eroso dall’IRPEF, che non è stata modificata.

Non c’era alternativa? Ci si poteva provare: per esempio, applicando piccole imposte patrimoniali (come in tutto il mondo “capitalista”), recuperando qualcosa dall’evasione fiscale (che ammonta a circa cento miliardi), rinunciando a qualche sanatoria e a qualche flat tax, dando qualche progressività alla tassazione sulle rendite finanziarie. Oltre tutto, in questo modo il beneficio avrebbe potuto essere strutturale, non così effimero. In ogni caso, meglio sarebbe stato tagliare il cuneo fiscale, non quello contributivo: almeno un po’ di equità.

D’altronde non è la prima volta che si scarica debito sulle spalle dei pensionati. Ci aveva già pensato Mario Monti, e voglio ricordarvi che cosa ha fatto.

Il pubblico impiego aveva una sua “cassa pensioni”, l’INPDAP. Mentre nel settore privato i datori di lavoro versano (quasi sempre, almeno) una quota dei contributi previdenziali per i dipendenti, lo Stato non lo faceva. Perché, infatti, versare a sé stesso i contributi, in una sterile partita di giro, visto che la cassa pensioni è “in source”?

Con il decreto “Salva Italia”, Monti accorpò l’INPDAP all’INPS. Con questo provvedimento l’INPS ebbe l’onere di pagare la pensione per i dipendenti pubblici, ma non ricevette un solo euro dei contributi relativi, mai versati dallo Stato. Da un giorno all’altro l’INPS si trovò con una voragine nei conti. Il costo delle pensioni divenne insostenibile e fu necessaria, anzi indispensabile, la riforma Fornero.

L’escamotage sortì l’effetto di alleggerire il debito pubblico dal costo delle pensioni di milioni di ex pubblici dipendenti, accollandolo alla generalità dei pensionandi, a partire dagli esodati.

E se allora il gioco riuscì così bene, perché non farlo di nuovo? Per fortuna non siamo in Francia, qui da noi non si scende in piazza per motivi così futili.

E così avremo un piccolo aumento in busta paga oggi (ma solo per alcuni mesi, poi chissà) che pagheranno di nuovo i futuri pensionati.

Certo, bisognerebbe spiegarlo a tutti che è un altro imbroglio, ma non si può. Come possiamo perdere tempo con queste malevole sciocchezze quando la maggioranza si accinge a un’azione storica: cambiare finalmente la costituzione, rendere i governi più stabili, l’azione politica più efficiente?

Beh… anche qui ci sarebbe una piccola inesattezza.

Infatti, la maggioranza di governo ha avuto circa il 44% dei suffragi da parte dei votanti, che corrispondono a un misero 28% del corpo elettorale. Grazie al “rosatellum” quel 28/44% si è trasformato in maggioranza assoluta nel Parlamento, ma non rappresenta la maggioranza degli elettori né, tanto meno, degli italiani. Ha il diritto di riformare la costituzione, come promette di fare, anche da sola? Non dovrebbe, con la dovuta umiltà, impegnarsi a non varare riforme senza un consenso più ampio?

Ironia della sorte, le cosiddette riforme sono tutte mirate al nobile obiettivo di rendere il capo del governo più forte e indipendente dal potere dei partiti.

Ed anche qui c’è un bel po’ di distorsione della realtà, per non chiamarla ipocrisia. Con una legge elettorale come quella attuale – peggiore del porcellum, della legge truffa e della legge Acerbo – la minoranza al potere riesce a fare l’asso piglia tutto occupando l’intero panorama degli enti pubblici con decreti ad personam; riesce persino a far ripetere le votazioni del Parlamento quando le sono sfavorevoli, come recentemente avvenuto per il DEF; e pretende di avere un maggior potere? E gliene frega niente a nessuno della rappresentanza? O non è chiaro che siamo già nel pieno di una tipica “democratura”?

Tornando, comunque, ai problemi del lavoro, quest’anno c’era stato finalmente un aumento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato. Lo stesso governo se ne è un po’ vantato, quasi fosse merito suo, dimenticando che il fenomeno è frutto dei provvedimenti presi dai governi precedenti. Ma poi il buon senso è prevalso, e il decreto lavoro ha provveduto a liberalizzare i contratti a tempo determinato. Per soprammercato, quando i nuovi precari perderanno il posto di lavoro, non avranno più diritto a un sussidio degno di questo nome, perché sono, evidentemente, “occupabili”. Quando si dice la coerenza!

Qui mi fermo, anche se non finiscono qui le cose che consentono di misurare la distanza tra la realtà dei fatti e le dichiarazioni dei politici.

È vero, è un malcostume comune – “trasversale” si direbbe oggi. Ma mi sembra che adesso stiamo davvero esagerando.

Cesare Pirozzi

 

 

 

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