Riforma affossa sogni e bisogni

Tre uomini hanno avuto il pallino in mano per fare filotto dei birilli disposti sul logoro panno verde del biliardo politico italiano. In epoche ed equilibri governativi diversi, sono stati Mariotto Segni, Matteo Renzi e Matteo Salvini. Del primo ancora oggi si dice che è come gli fosse capitato di sbancare la Lotteria Italia, ma avesse poi smarrito il biglietto vincente per passare all’incasso. Del suo ambizioso disegno referendario di riforma in senso maggioritario della legge elettorale, la Corte costituzionale ammise solo il quesito sulla preferenza unica. Era il 1991, Mariotto vinse il referendum, ma non poté fare filotto. Solo il cosiddetto maggioritario, nella sua completezza, avverrebbe consentito di procedere al rafforzamento decisionale diretto del governo e del suo capo. Tutto rifluisce, invece, nei vecchi giochi di sponda all’italiana, fino a che nel dicembre 2005 ci pensa il leghista Roberto Calderoli a riportare tutto non tanto come ma peggio di prima. La sua nuova legge elettorale, infatti, è chiamata Porcellum, arrivando proprio lui a definirla un’autentica porcata.

In Mario Segni l’esigenza riformatrice nasce dalla constatazione della mutata realtà economica e produttiva della società italiana. Questa impone alle istituzioni di adeguarsi, ma è proprio in questo che si manifesta una prima forma di resa della politica. Si dovrebbe squarciare una nuova visione che la metta in grado di adottare misure in grado di governare economia, finanza, mercato, produzione, lavoro, salari e conseguenti fenomeni sociali. Non si intravede, invece, altro che un rafforzamento dell’apparato decisionale governativo, per non dovere troppo sottostare alle limitazioni democratiche delineate dalla Carta costituzionale nel 1947, dopo la caduta della dittatura mussoliniana. Il mondo cambia velocemente e io Esecutivo altrettanto rapidamente devo decidere, ossia accentrare in me tutta la forza di ragione e deliberazione. Con ciò che non si riesce più a guidare, si può soltanto concordare una resa onorevole. E ciò può avvenire in un unico modo: facendosi conferire un mandato formalmente democratico proprio dai governati. Quello di avocare a sé il potere sostanziale di far piegare loro la testa alla forza extra legis di soggetti extra democratici.

Questo primo apparire del declino della politica, della democrazia è già il suo rapido scivolare lungo un inesorabile piano inclinato. Il 12 aprile 2016 la Camera dei deputati approva definitivamente le modifiche della seconda parte della Carta, proposte dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi e dalla Ministra per le riforme costituzionali Maria Elena Boschi. È a un incremento decisamente maggiore – rispetto a Segni – dei poteri governativi. A Renzi e a Boschi non basta, però, l’accettazione della sfera meramente politica. Conoscendo lo stato di strutturale inconsistenza di quest’ultima, vuole che a conferirgli esplicito mandato all’accentramento siano direttamente i governati. Ma a rimarcare la faglia di frattura tra l’irrealtà della politica e la realtà sociale è proprio l’esito per lui catastrofico di quel referendum.

Ci riprova Matteo Salvini nell’agosto del 2019. Non più attraverso il Parlamento, ma munito di grandi cuffie audio alle orecchie e al collo, addosso alla consolle sparata a palla del Papeete Beach, sulla spiaggia di Milano Marittima. Tra cubiste, cori, balli, cocktail esotici e corpi in costume eroticamente febbricitanti per mega sbornia storico-politica in atto, butta giù il Gabinetto Conte, di cui è vicepresidente. Apre così una delle crisi più folli registrate da un sistema di democrazia parlamentare. Con gli attributi in modalità ruspa, frementi sotto i suoi screziati box da mare reclama – sic et simpliciter – tutti i poteri. Altro delirio, altro disastro, altra corsa.

Dopo tre uomini, s’appresta ora a farci i conti una donna, Giorgia Meloni. È certo che lei farà tesoro dei frontali, entrambi con postumi mai totalmente assorbiti, dei due tanto caramente matti Matteo. Anche avendo sulla carta la disponibilità di entrambi, unitamente a quella di Carlo Calenda, gli mancherebbe pur sempre la maggioranza di due terzi dei senatori e dei deputati necessaria per approvare – alla seconda votazione – qualsiasi accordo di modifica costituzionale a cui si pervenga tra forze di maggioranza e Terzo Polo. Anche perché Renzi, ormai si sa, entra in un patto solo se sa di essere determinante, per far pesare poi il suo potere di condizionamento. D’obbligo, dunque, appare ancora una volta il ricorso alla via crucis referendaria. Si possono indossare doppie lenti scure da eclissi solare, ma questo non attenua affatto il rischio da schianto per accecamento politico. Sulla scorta del suo consistente successo elettorale, dell’elevato consenso tuttora accordato, di una disunità e dunque inconsistenza dell’opposizione, istinto e ragione inducono a ritenere che il dado del referendum possa e debba essere tratto.

Al fondamento della realtà e della coscienza resta, però, che sogni e bisogni della civiltà non solo non costituiscono più la priorità della sfera politica, ma sono all’opposto da essa asfissiati, affossati. Privilegiando il suo peculiare rafforzamento interno, infatti, il potere non può che rendersi via via più autonomo da essi, ossia irresponsabile. Svincolandosi dall’obbligo di risponderne, esso è destinato così a configurarsi in modo sempre più assoluto, ab-solutum, sciolto, libero da vincoli. Diversamente – invece che pretendere e decretare maggiori poteri – si aprirebbe un grande dibattito e sedimentazione di idee sulla necessità di un inedito patto costituzionale intorno ai cruciali problemi incombenti sul presente e ai grandi temi d’epoca.

Riccardo Tavani

Print Friendly, PDF & Email