PAROLE AL VENTO

Mario Guido Faloci

Racconto

Davanti alle immagini televisive che mostravano le persone in fila per un lavoro, il vecchio leader con la memoria tornò al congresso di una decina di anni prima. Tanto era stato importante per lui, facendogli impallidire i ricordi delle precedenti battaglie vinte, che lo manteneva inciso nell’anima e, negli anni, l’aveva evocato a più riprese.

Anni prima, alzando gli occhi dal blocco di fogli, aveva visto il viso compiaciuto del suo assistente che, ligio alla linea della segreteria, gli aveva preparato il discorso, infarcendolo di cifre e di atteggiamenti costruttivi.

E’ un bel testo, grazie Antonio” l’aveva rincuorato “Forse sarebbe meglio usarlo per uno degli articoli della rivista del sindacato…

“Ma, ma…l’ho scritto perché tu lo legga oggi, perché tu possa esprimere il parere del Segretario…”  aveva cominciato l’altro.

“Il segretario dovrebbe stare un po’ più tranquillo, ché non ho intenzione di sconfessare la sua linea”  l’aveva interrotto bruscamente “ Ma, di fronte a questo consesso, voglio esprimermi liberamente e non essere troppo schematico o rigido”.

Poi, con un eloquente gesto di cortesia, gli aveva restituito le carte e omaggiandolo di una pacca sulla spalla, per sottolineare quanto la sua fosse una sua scelta di carattere personale, più che palesare una sua eventuale disapprovazione alla linea politica ufficiale.

Era andato alla toilette per rinfrescarsi, in vista della ripresa dei lavori del dopo-pranzo, quando il suo atteso intervento avrebbe segnato la dirittura d’arrivo del congresso. Aveva goduto del sollievo dell’acqua gelida sulle mani e poi sul viso, con quella sensazione di risveglio totale, della mente e dei sensi, che gli dava la carica, per affrontare quel momento.

Rammentava che era rimasto un poco a contemplare le goccioline che scorrevano sul suo viso, il colore chiaro dei suoi occhi e la smorfia apparentemente tranquilla del volto. Poi s’era lasciato andare al ricordo al suo primo discorso, di fronte a un uditorio e aveva riprovato, per un attimo, la stessa sensazione di “piccolo panico” d’allora. Come non mai, aveva sentito rifluire la vita in lui.

Sentendosi le energie dei suoi primi anni d’impegno, aveva percorso il corridoio col cuore in tumulto ed aveva salito i gradini del palco, alla sua chiamata, col desiderio di essere ascoltato, invece di essere applaudito per “il compitino svolto”.

“Compagni, amici, fratelli!”  aveva esordito, il vecchio leader  “Siamo riuniti per discutere di questo nuovo mercato mondiale, della globalizzazione, ciascuno dal suo punto di vista, secondo la propria esperienza.

Tutti noi siamo responsabili di questo nuovo assetto economico mondiale, perché cerchiamo di ottenere il meglio per i nostri lavoratori, affinché abbiano più soldi, maggiori diritti e uno stile di vita sempre più valido: nulla manchi loro e sia ottenuto con sempre maggior facilità, con sempre minor dispendio di energie.

E questo è un bene, è giusto!

Ma nessuno di noi, del nostro mondo occidentale, s’è mai posto un problema semplice: chi paga per tutto questo?

In oriente, dove abbiamo lasciato che si delocalizzasse il lavoro, un operaio viene pagato meno di un ventisettesimo, rispetto ad un nostro lavoratore e ha uno stile di vita quasi da schiavo.

Ecco chi paga gli abiti, i televisori, i mobili e tutto il resto, ai nostri operai!

Quali diritto morale abbiamo noi, di cercare una veloce elevazione della qualità della vita dei nostri, accantonando il diritto ad un’esistenza dignitosa, del povero operaio asiatico?”

Deluso dal brusio sommesso della platea, aveva capito che ciò che stava dicendo, era troppo per quella massa di scaldasedie, di pseudo-rivoluzionari stipendiati, che tuonavano contro lo sfruttamento, ma che non andavano al di là di quello del proprio orticello. Parlavano di globalizzazione del mercato, ma non pensavano a quella delle persone, a quella dei diritti.

“Compagni, facciamo attenzione, ché questo benessere è costruito sul vuoto, su capitali nati dal nulla che l’occidente da tempo non ha più, sulla repressione di uomini sfruttati, sul principio di una continua crescita, di una continua accelerazione. Ma sappiamo bene che i cicli economici positivi, non sono infiniti e la ricchezza non nasce solo da spostamenti di capitali da una banca all’altra.”

Sentitosi improvvisamente esausto, aveva preso un sorso d’acqua che gli veniva porto da un commesso visivamente perplesso e, sconsolato per lo scarso seguito ai suoi moniti e si era avviato alla conclusione.

“Questo mondo non si regge più sulla contrapposizione di blocchi ideologici, politici; questo mondo non è più indirizzato da traguardi ambiziosi da perseguire. Ci troviamo a vivere in un mondo in cui tutto è merce, in cui l’egoismo domina ogni azione.

Compagni, in nome dei principi che c’hanno portato fin qui, non commettiamo l’errore di fermarci al nostro ambito e cominciamo sin da ora, che siamo agli inizi di questo mondo nuovo, a porre le basi di equità e giustizia che da sempre professiamo. E, anche se non lo facciamo per dei principi morali, facciamolo per tutelare meglio i nostri rappresentati: solo un mondo fondato su certe basi stabili, potrà superare le bufere finanziarie che cova dentro, da più di un decennio…!”

Accortosi del chiacchiericcio diffuso, con cui era stato condannato all’indifferenza il suo intervento, a dispetto delle altre cose che avrebbe voluto dire, col nodo alla gola aveva sussurrato anzitempo il suo “Ho finito” conclusivo.

Era sceso dai gradini del palco con passo sconfitto, con la delusione della pressappochezza con cui era stato ascoltato. Possibile che nessuno avesse voluto vedere al di là del presente?

Ma, di quel ricordo, aveva un momento che non voleva dimenticare: era quando si stava avviando, da solo, senza assistenti od ossequiosi compagni di comitato, verso l’uscita. Un gruppetto di giovani militanti, l’aveva aspettato davanti al portone della sala congressi, per ringraziarlo del coraggio di quelle sue parole.

In particolare, ne ricordava uno, un po’ più grande degli altri, alto, taciturno e con una gran massa di capelli neri, era stato in disparte per tutto il tempo, senza dir nulla; ma, al momento di lasciarlo andare, gli aveva stretto la mano e gli aveva detto: “Compagno, le tue non sono state parole gettate al vento” e poi era quasi scappato.

Allora, quello fu il suo ultimo discorso, prima che venisse accantonato dalla segreteria, costringendolo alle dimissioni per motivi personali. Ormai, non provava quasi più alcuna emozione, al rispolverare quei fatti: era roba che si era lasciata alle spalle, che non poteva più ferirlo o esaltarlo.

Anche se poi, il tempo gli aveva dato ragione, non era tornato indietro a sventolarla in faccia ai suoi detrattori. La vita, attraverso le sconfitte subite nelle molteplici lotte sostenute, gli avevano insegnato ad accettare la realtà e lo stato delle cose, quando nonostante l’impegno si falliva.

Dopo di allora, aveva chiuso definitivamente col Sindacato e, coi pochi amici con cui era rimasto in contatto, era in vigore il tacito patto di non parlarne mai.

Proprio perché sentì che il telegiornale stava parlandone, si apprestò a spengere la tv. Ma si arrestò col telecomando in mano, quando vide un volto a lui famigliare. Allora, alzò il volume.

Così ebbe modo di sentire che parlavano del nuovo eletto nella segreteria, proprio nella posizione dirigenziale che fu sua; era il più giovane nella storia della Confederazione ed era conosciuto per le sue idee particolarmente in anticipo sugli eventi e sulla crisi.

Il vecchio leader, lo guardò meglio e seppure ormai con pochi capelli, grigi, riconobbe il giovane che gli aveva stretto la mano, davanti al portone, quel giorno.

Una lacrima, gli scese dagli occhi e si trovò a sussurrare, felice: “Forse no; forse, le mie parole non sono state gettate al vento…”

(2009)

di Mario Guido Faloci