Jobs Act, un bilancio

zinilli

Su una proposta politica o una legge appena promulgata si possono avere solo opinioni. Per il Jobs Act è tempo, invece, di bilanci. Nonostante sia passato quasi un anno e mezzo dall’approvazione della legge, si può fare comunque solo una valutazione incompleta. Occorrerebbero almeno altri due o tre anni perché gli effetti totali della riforma vengano alla luce.

Innanzitutto, analizzando i dati dell’occupazione, si dovrebbero fare due diverse analisi: una di breve e una di medio periodo. Se guardiamo il breve periodo la disoccupazione, sia totale sia giovanile, sembra in lieve calo. A settembre si attestava all11,7%, secondo dati Istat. Andando più nello specifico, si nota che questo calo è avvenuto principalmente nel 2015. Effettivamente, gli sgravi contributivi hanno condotto le imprese a stabilizzare o ad assumere con contratti a tempo indeterminato. In realtà questo effetto è stato pompato dal doping della decontribuzione. Una volta finiti gli sgravi, nei primi otto mesi del 2016 questa spinta è rallentata e i tassi di disoccupazione sembrano rimanere stagnanti.

Guardando il medio periodo, invece, si vede come i dati occupazionali pre-crisi rimangano lontani. Si è riuscito a recuperare solamente un terzo degli occupati andati persi durante gli anni di crisi.

Il miglioramento dell’occupazione, inoltre, non è ascrivibile al solo Jobs Act. Occorre tenere in considerazioni tutte le componenti che fanno parte della congiuntura economica. É complicato quantificare i singoli meriti che hanno avuto in questo caso, per esempio, il Quantitative Easing, i prezzi bassi del petrolio o la ripresa della crescita, seppur minima.

C’è un ulteriore aspetto. La legge rientra in pieno nelle teorie della cosiddetta flessibilità lavorativa. In realtà sarebbe più idoneo definirla precarizzazione, che finora ha solo ridotto il potere di contrattazione dei lavoratori. Anche l’abolizione dei contratti a collaborazione pur avendo scopo opposto, ha finito per favorire questa tendenza. Questi prevedevano almeno un compenso minimo. Il risultato è stato, invece, un esplosione della gig economy, cioè l’economia dei lavoretti senza prestazioni continuative, e, soprattutto, dei voucher. Quest’ultimi erano nati, nel 2003, con l’intento di far emergere dal nero i lavori occasionali. Invece, solo il 6% viene venduto nel settore agricolo e il 3% nei servizi domestici; per la maggior parte sono andati a regolare lavori in ambiti, come il commercio e il turismo, dove le prestazioni non sono affatto occasionali o di tipo accessorio.

Il Jobs Act ha poi la caratteristica di spostare il reddito dai salari ai profitti, avvantaggiando così le imprese. Se si va prendere in considerazione la struttura dell’economia e non solo i dati generali, alcuni studi mostrano come i nuovi contratti sembrino concentrarsi nel terziario, e in particolare in settori come quello commerciale caratterizzati da occupazione poco qualificata. Quindi il problema occupazionale italiano potrebbe diventare anche qualitativo oltre che quantitativo.

Ma quanto costa la decontribuzione per le imprese prevista dalla legge? Secondo le stime di uno studio, effettuato da Marta Fana e Michele Raitano, le cifre si attesterebbero in un range che va da 14 a 22 miliardi in tre anni, in base alla durata dei contratti sottoscritti. Cifre importanti, a cui vanno aggiunti i 3,5 miliardi circa già spesi nel 2015. Considerando che l’Italia non dispone in questo momento di risorse enormi, forse, visti i risultati, questi soldi andavano impiegati diversamente. Anche tutta l’enfasi posta sull’articolo 18 era evidentemente esagerata. Bastava vedere che la maggior parte delle imprese italiane hanno 3/4 dipendenti. Se l’articolo 18 fosse stato davvero un limite ci sarebbero dovute essere molte più imprese con 13-14 lavoratori.

L’unica soluzione politica in Italia sembra sempre essere quella di abbassare le tasse alle imprese. Invece, questo non solo crea più disuguaglianza, ma non risolve i problemi. Il problema, semmai, è a mancanza di investimenti e di opportunità produttive. Occorrerebbe investire in ricerca e nei settori all’avanguardia. Non più con misure a pioggia non legate ai risultati effettivi. Quella in corso è una crisi di domanda. Quindi un rimodulazione del sistema fiscale sarebbe auspicabile ma, si intenda, che vada a vantaggio di tutti e soprattutto dei meno abbienti e non solo delle imprese. Così ripartirebbero i consumi.

Il Jobs Act è stata una legge sbagliata. È questa non è più un opinione, ma sta diventando sempre più un fatto.

di Pierfrancesco Zinilli

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