Perché il ricordo serva a qualcosa

Mi sono chiesto talvolta quale sarebbe stato il futuro del nostro paese se fosse stato possibile cancellare un periodo di 6 anni, dal 1978 all’84.

In quegli anni, infatti, ebbero a morire tre uomini politici “veri”, per i quali poteva essere usata, senza remore, la parola “statista”. Mi riferisco ad Aldo Moro (1978), a Piersanti Mattarella (1980) e ad Enrico Berlinguer (1984).

Erano tutti e tre nella pienezza del loro impegno: ancora giovani (62 anni) Moro e Berlinguer; ed appena 45 anni Mattarella (l’età di Kennedy quando fu eletto 35° presidente Usa).

Ma quegli anni purtroppo, ci sono stati.

Non c’è stata un’ Italia possibile, che affrontava la questione morale con Berlinguer, che vedeva un’azione coesa di forze politiche progressiste con Moro, che combatteva con intransigenza la criminalità organizzata e la degenerazione dei partiti con Piersanti Mattarella.

C’è stata, invece, un’altra Italia. Quella di Craxi, di Berlusconi, delle larghe intese tanto care a Napolitano, delle rottamazioni e della Leopolda, dello “stai sereno Enrico” e del Nazareno ( tra l’altro nel 1978, in quei 6 anni, nasceva Matteo Renzi), dei populismi e dei politici “naif”, di mafia capitale e degli attentati alla Costituzione.

In questi giorni è stato ricordato l’anniversario dell’assassinio di Piersanti Mattarella. I “media”, come come del resto per quello dell’uccisione di Moro, hanno parlato dei lati oscuri di quei delitti, degli esecutori, dei mandanti, delle connivenze politiche e mafiose.

Non hanno rimarcato, però, la ferita che tutti noi abbiamo avuto con le loro morti, del loro lavoro politico pulito e ispirato al bene comune, dell’ esempio di “disciplina e onore” con cui hanno svolto le funzioni pubbliche loro affidate.

“Sono cose di un altro secolo”? Forse. Ma sento il dovere di scriverne, per ringraziare delle idee con cui ho cercato di vivere, per rammentare i momenti di studio, di approfondimento con cui ho vissuto la preparazione alla vita.

Ho avuto la fortuna di viverli con Piersanti, quei momenti. Eravamo insieme in organizzazioni di cattolici.

E quando i libri di Pasolini suscitarono lo scandalo dei buoni borghesi, ci sentimmo in dovere di andare in borgata con un prete d’assalto, ovviamente malvisto dai monsignori del vicariato. Per dare una mano agli ultimi della terra, che vivevano di espedienti perché il lavoro era una chimera. Per aiutare con un minimo di igiene le donne che abortivano per disperazione. Per un’immagine di cristianesimo vero, con le aperture che si sarebbero realizzate poco dopo, con il Concilio Vaticano Secondo.

Ci sentimmo in dovere. Insieme, in gruppo. In comunità.

Era un elemento proprio dell’agire di Piersanti. Insieme. Per conoscere, considerare, armonizzare le idee di ciascuno, in una crescita collettiva. L’opposto di un uomo solo al comando.

Uguale comportamento ebbe in compiti più importanti, quando fu nominato delegato nazionale degli studenti dell’azione cattolica (Giac). Con consultazioni sistematiche dei delegati regionali, con campi-scuola estivi. Erano incontri con discussioni franche e fraterne sul ruolo da svolgere nella società del futuro, sull’impegno per un lavoro per tutti, sulla promozione dei diritti per gli esclusi, per i più diseredati, sul distinguersi da spregiudicate tentazionioni politiche.

Lo stesso avvenne dopo, quando la vita ci portò su strade diverse. Quando Piersanti si trovò impegnato in politica. Non era la sua prima scelta, ma la svolse con la stessa passione, con la volontà di portare onestà, dignità, lavoro nella sua Sicilia martoriata dalla mafia, da ignobili malversazioni economiche, da spaventose connivenze potere-politica-malavita organizzata.

Per quell’impegno è stato ucciso.

Ma in un’epoca di politica improvvisata, di perdita di valori ideali, un’epoca in cui solo un papa venuto dalla fine del mondo sembra dare messaggi di solidarietà umana, il ricordo di Piersanti non può essere confinato a poche parole sulle trame oscure sulla sua morte.

Per questo voglio ricordare una iniziativa che volle prendere, già prima del periodo di Presidenza della regione Sicilia, quasi un compendio del suo modo di pensare. Di essere comunità, di confrontarsi, di agire insieme.

Fu all’inizio del 1977 che Piersanti chiamò per una riunione un gruppo di persone esperte in vari campi di gestione. Nessuna limitazione di appartenenza politica, per loro. Caratterizzate tutte per onestà e per competenza. Chiamate per confrontarsi sulle piaghe politiche della Sicilia, per indicare possibilità di riforma della struttura regionale, per dare supporto ai giovani che non accettavano il terreno mafioso.

In quello che si chiamò “Gruppo Politica” si tenevano frequenti riunioni periodiche, con una elaborazione collettiva e una formazione alla vita pubblica. Senza le esternazioni pubblicitarie stile Leopolda, senza gigli magici, contro comitati d’affari di ogni segno. E per preparare il futuro con i giovani, sempre presenti nelle iniziative di Piersanti.

Per essi il “Gruppo Politica” pensò a corsi di formazione, con tematiche di prospettiva (Evoluzione dei poteri dello Stato), di confronto (Cristianesimo e marxismo) e di formazione (Valore e significato del fare politica).

Ecco, penso sia giusto ricordare questo modo di fare politica, così lontano dall’oggi, con mafie capitali, populismi carichi di egoismo, movimenti aprogrammatici, partiti che tradiscono il mandato degli elettori, leggi elettorali incostituzionali.

E aggiungere, con qualche speranza, che ai lavori del “Gruppo Politica” partecipava anche l’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Che nel suo discorso di fine anno ha parlato del Paese come Comunità.

Che va costruita giorno per giorno, nella realtà.

Che non ci devono essere cittadini di serie B.

Che il problema numero uno del Paese resta il lavoro.

Che per i giovani, i più colpiti, la dignità è legata al lavoro.

Che una grave ferita alla nostra convivenza è rappresentata dalle oltre 120 donne uccise nel 2016.

Che, il referendum si è svolto con alta affluenza, segno di grande maturità democratica.

Che, come primo atto della sua Presidenza, è andato alle Fosse Ardeatine.

di Carlo Faloci