Passi di bambola rossa che sfiorano il pavimento

Nel giro di poco più di in mese Tamara Bartolini e Michele Baronio mettono in scena al ridotto del Brancaccio di Roma l’origine e la tappa più recente del loro cammino teatrale. Proprio come dice il drammaturgo, poeta americano, Nobel della letteratura T.S. Eliot: “Noi non cesseremo l’esplorazione e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere là onde partimmo e conoscere il luogo per la prima volta”. Il 20 e 21 ottobre è andato in scena “Dove tutto è stato preso”, l’ultimo lavoro di Bartolini/Baronio, frutto di una lunga ricerca e sperimentazione, vagabondando per l’Italia con la loro piccola figlia Thea, ospiti di diverse residenze teatrali. Dal 30 novembre al 3 dicembre ripropongono invece sullo stesso palcoscenico romano “Passi – Una confessione”, vincitore del Premio Dominio Pubblico 2014. Un’occasione preziosa per chi non ha potuto assistere alle precedenti rappresentazioni. Dentro uno spazio scenico fatto d’ombre e squarci, linee luminose elettroniche disegnate e animate in diretta da Michele Baronio, Tamara Bartolini si muove e recita appesa per le ascelle a due funi che le consentono appena di sfiorare con i piedi le assi del palcoscenico. Ha scarpe rosse fiammanti da diva hollywoodiana e capelli naturali rossi, che ben rappresentano la sua vulcanica irruenza corporea attoriale e rivolta autoriale.

C’è una pièce del 1976 di Samuel Beckett intitolata in italiano “Passi”. Il titolo originale, però, è “Footfalls” che indica sia l’eco, la cadenza, lo scalpiccio dei passi, sia contiene in sé il sintagma “fall” della caduta. È proprio ciò che è all’origine di questa piéce bartoliniana. Una caduta, una brutta caduta in casa che l’ha costretta a mesi di immobilità, sofferenza, riflessione. Così sentiamo l’eco rumorosa dei ricordi che corrono, inciampano tra slanci del desiderio, dell’immaginazione e dolenti impedimenti fisici dell’infanzia. È una lotta dei piedi e della testa, delle scarpe e dei capelli, dei gesti scenici e della voce d’attrice per squarciare il presente, nel suo duplice aspetto di dono e dannazione.

Tutti temi che in “Dove è tutto preso” il duo Bartolini/Baronio espande, esplora, fa esplodere e poi implodere dentro una sintesi poetico-esistenziale tanto rarefatta scenicamente, quando densa di ethos ed epos teatrale, ossia politico, civile, nel senso vero e proprio della polis, della civitas, della città, della civiltà. Un’esplorazione testuale che va da Thomas Bernhard, tocca Ludwig Wittgenstein e ancora Beckett nella drasticità scenica. Un striminzito stenditoio per pannolini, fatto di piccoli segmenti tubolari, smontandosi si ricompone al servizio non solo passivo ma testuale di scene e significanze diverse. Dal dentro al fuori, perché – come recita Michele Baronio in un funambolico monologo in pura lava linguistica pugliese – la casa è anche il fuori della casa, la casa vera è tutta la città. È scagliando in terra il sacco dei giocattoli di sua figlia, spargendo lungo tutto il palcoscenico il bustone di plastica dei mattoncini Lego, circondandoli, intrecciandoli di filo illuminato ce la fa vedere per intero la città. La città dentro di noi. Dentro di noi, fin dal momento che nascendo squarciamo la scena del mondo con il nostro primo pianto disperato. È cosi – con la registrazione del pianto di sua figlia dopo il parto – Tamara Bartolini chiude la scena con quella che è in realtà la sua vera apertura. Perché ognuno di noi con quel pianto segna una possibilità nuova, o il ritorno di una possibilità negata, imbavagliata, repressa dalla violenza del potere. Una possibilità di cui la futura città teatrale, la scena esistenziale del mondo non può fare a meno.

Passi di Bartolini/Baronio, 30 nov – 3 dic – Teatro Brancaccino, Roma.

di Riccardo Tavani

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