Lo scannamento sacrificale dell’infinito

Yorgos Lanthimos è un greco ateniese che si è già fatto notare nel 2105 a Cannes con un Premio della Giuria, per TheLobster, L’aragosta, film tra il surreale della vicenda narrata e il reale del suo senso esistenziale. Il fatto che sia greco e di Atene ha però una precipua attinenza con questa sua nuova opera Il Sacrificio del Cervo Sacro. In Grecia nascono e ad Atene si sviluppano il mito, il logos, la filosofia, la democrazia, il teatro tragico che sono al fondamento dell’Occidente. Solo un greco poteva trovare il modo di far pulsare sotto il massimo sviluppo della scienza medica e clinica contemporanea, un fondamento originario, una legge ancestrale che nessun progresso sembra poter destituire. Se nella polis, nella città viene commessa un’ingiustizia che ripugna gli dei, per quanto essa rimanga sconosciuta, non solo la colpa dei padri ricade sui figli, ma il male si diffonde nell’agora, nella piazza, tra le vie come un’epidemia. È il mito di Edipo, che uccide – pur non conoscendolo – il padre Laio, e sposa – pur ignorandolo – sua madre, Giocasta, da cui ha tre figli. Questo doppio, efferato misfatto deve essere – in ragione direttamente proporzionale – compensato. Giocasta si uccide, Edipo si acceca con una spilla della madre-sposa, ed è poi ripudiato dai figli ed esiliato da Tebe.

Dalla Grecia arcaica all’America medica. Steven, Anna, Kim e Bob Murphy. Marito, moglie, una figlia sui sedici, un figlio sugli undici. Lui cardiochirurgo, lei oculista, interpretati da Colin Farrel e Nicole Kidman. I ragazzi se la cavano bene a scuola. Tutto procede a meraviglia, a parte lo strano modo di fare l’amore che Steven pretende da Anna. Lo chiamano tra loro “anestesia totale”: lei si sdraia nuda sul letto, con la testa reclinata in fuori dalla parte dei piedi – più da una morta che da anestetizzata –, e lui le va sopra così. Feticismo erotico-clinico.

C’è però uno strano ragazzo che Steven incontra ogni tanto. Anzi, sempre più spesso è questo Martin che va a trovarlo in ospedale, anche nei momenti meno opportuni. Sì strano, soprattutto per quella sua faccia quietamente inquietante. Un giovane attore, Barry Keoghan, destinato ad apparire ancora sugli schermi. Proprio per questa sua faccia, che sa usare molto bene. A un certo punto Steven lo invita addirittura a pranzo a casa, gli fa conoscere tutta la famiglia. Sua figlia Kim è subito attratta da lui. Martin ricambia con un invito a cena per il solo Steven. Vuole che conosca sua madre e addirittura che le zompi addosso, dopo che lui li ha lasciati a chiacchierare da soli in soggiorno.

Dopo questi due incontri Kim e Bob cominciano a sentirsi male. Non riescono più a camminare. La loro salute peggiora gravemente di giorno in giorno. Steven mobilita tutto l’apparato scientifico, tecnico medico del suo ospedale, uno dei più avanzati al mondo. I migliori specialisti fanno ogni tipo di ricerca, non trovando assolutamente niente. Ipotizzano le più sofisticate diagnosi, somministrano terapie avanzatissime, ma tutto è negativo. Non si trova nessuna causa, non funziona nessuna cura. Martin mordendo furiosamente un braccio a Steven, gli dice che quel male ha un solo rimedio, e glielo mostra. Morde il suo proprio braccio, fino quasi a staccarsi la carne. “Ecco, solo questo ristabilisce il bene, è tutto simbolico”. Occhio per occhio, dente per dente. Altro che superficie asettica e super attrezzata della medicina americana. L’offesa a Dike, l’antica dea greca della Giustizia, è come un muto terremoto sotterraneo: demolisce lentamente ma inesorabilmente le fondamenta e la coesione della città.

Il padre di Martin è morto sotto i ferri, e il giorno dell’operazione, in camera operatoria c’era Steven Murphy e – sembra – avesse bevuto qualche bicchiere in più. Ora lui deve ristabilire l’ordine spezzato. Come nell’Iliade di Omero, Agamennone ha sacrificato sua figlia Ifigenia, ora Steven deve decidere chi uccidere della sua famiglia: moglie, figlia o figlio. Chi sarà il capro espiatorio, quale antropologico cervo sacro scannare per ristabilire l’equilibrio della giustizia cosmica.

Si è parlato delle influenze esplicite che Lanthimos riceve da Stanley Kubrik. Il carrello all’indietro, il movimento della macchina da presa, l’inquadratura del corridoio d’ospedale sarebbe una dichiarata citazione del corridoio nell’albergo di Shining. Tutto vero, ma su questo punto bisogna essere chiari. Dal punto di vista della forma artistica cinematografica, Lanthimos è molto lontano dal raggiungere il vertice di quel capolavoro di Kubrik. Dal punto di vista del contenuto filosofico-narrativo, invece, lui compie un passo più radicale. Ci rammarichiamo che un contenuto così profondo non abbia trovato una sua adeguata altezza estetica, proprio perché solo un greco poteva compiere quel decisivo giro di vite contenutistico.

Tutta la nostra cultura, la civiltà occidentale è fondata sul nichilismo, ossia sulla preventiva decretazione a morte di ogni cosa che è, sarà, di ogni essente che appare e apparirà all’orizzonte della terra. Solo un greco può portarsi sotto la pelle dell’inconscio, sul filo della logica in chiave artistica artistica, l’eredità del duro scontro che c’è stato intorno al V sec A. C., proprio ad Atene, su questo cruciale enigma umano. In quello scorcio di tempo Platone – nel Sofista, uno dei suoi massimi dialoghi socratici – deve commettere il parricidio, uccidere simbolicamente, ma apertamente ParmenideO Mega, il loro grande padre filosofico. Deve ucciderlo proprio per la radicale negazione logica parmenidea di ogni preventiva e irrazionale decretazione nichilista.

Così la decretazione a morte del padre di Martin, sotto l’anestesia totale materna e i ferri della tecno-chirurgia avanzata, verrebbe a rappresentare la frantumazione dell’ordine, la rottura dell’equilibrio universale della civiltà in sé, in tutta la sua interezza, immensità, totalità. Quale immane Cervo Sacro saremmo allora in grado di sacrificare per placare Dike, la Giustizia infranta, e la sua proiezione nell’agora, nelle piazze, vie, direzioni, rotte esistenziali del presente?

O se non sia proprio la nozione di sacrificio, scannamento di un incolpevole, il vertice massimo dell’illusione nichilista, perché quell’innocente soppresso rappresenta tutta la realtà stessa, nella sua pura, incontaminabile, illimitata estensione. È come tentare di scannare l’Infinito. E la muta scena finale ci mostra che può re-istaurarsi solo un ordine carico del dolore di uno sbrego di sutura non rimarginabile, che scorre sotterraneamente come il sangue nero, fumante dei morti omerici che transitano dall’odio della terra all’Ade senza pace.

di Riccardo Tavani