Il Lotto 285 – capitolo ventisette
“Non c’è nessuno di noi che non sia stato, almeno una volta, testimone di quelle misteriose vicende del sentimento o della passione, capaci di distruggere tutta una vita, di spezzare un cuore con un rumore sordo, come di un corpo caduto nell’abisso nascosto di una segreta, al di sopra della quale il mondo pone la pietra delle sue mille voci o del proprio silenzio.”
Jules-Amèdèe Barbey d’Aurevilly – Le diaboliche
(trad. di Elena Giolitti)
Ma quel sogno ancora mi tormentava, pur avendo ora accanto a me la mia forte e generosa compagna, anzi mi faceva venire in mente che quell’assassina fosse stata il fantasma di quella figura femminile, casta e pura, ma anche perversa e ammaliante, scoperta e perduta nei meandri dei ricordi della mia prima giovinezza.
Eravamo arrivati al mese di dicembre e ancora il nostro gruppo non aveva compiuto alcuna azione rilevante. Ciascuno di noi era rintanato nei rispettivi rifugi ed io comunicavo solo con la mia compagna che, anch’essa guardinga, difficilmente si muoveva dalla sua casa. Era un modo di comunicare molto particolare, fatto di appuntamenti segreti che avevamo concordato in precedenza, così come succedeva per gli altri componenti del gruppo d’azione che avevamo costituito. Un solo particolare ci distingueva dagli altri: quello di avere nelle nostre rispettive abitazioni tante armi e bombe a mano da far saltare intere colonne nemiche, se solo lo avessimo voluto. Ma il comando (o i comandi) ci impedivano di compiere azioni isolate, perché quelle avrebbero potuto pregiudicare altre azioni più organizzate, pensate e gestite per ottenere il massimo risultato con il minor costo di perdite. Ma quando ci si presentò una ghiotta occasione, come quella che andrò a descrivere, nessuno del nostro nucleo centrale si tirò indietro, anzi fummo sollecitati a perseguire quell’obiettivo per noi ritenuto strategico, oltre che relativamente facile da raggiungere.
Avevamo individuato, attraverso vari sopralluoghi nella zona, un certo movimento di truppe nemiche nei pressi del Teatro dell’Opera. Camion con una scorta, si fermavano sul piazzale. Da essi scendevano militari in divisa e in borghese i quali si avviavano verso il foyer del Teatro dove gli ufficiali si intrattenevano prima dello spettacolo mentre i militi si ponevano di guardia, armati di mitra, ai due lati dell’ingresso dell’edificio. I camion, con alcune sentinelle a bordo, rimanevano in sosta in attesa dell’uscita degli spettatori dopo la rappresentazione. Era un’occasione eccezionale che succedeva solo in concomitanza con qualche evento di interesse pubblico, come l’Opera, che rappresentava una delle nostre glorie nazionali.
Era tarda sera e i deboli lampioni illuminavano le strade deserte per il coprifuoco. Quel luogo era, quindi, un obiettivo relativamente facile, anche perché il Teatro si affacciava su una grande piazza che aveva diverse vie di fuga da tutti i lati.
Si raccontava che un operaio, nel periodo delle razzie di ottobre, avendo notato una momentanea distrazione del graduato di guardia, fosse saltato su un camion e a tutta velocità lo avesse portato via con tutto il carico, che insperatamente si trovò liberato.
Ma il nostro obiettivo non era quello di impossessarci degli automezzi nemici, ma di farli saltare, da fermi o in movimento, possibilmente con qualcuno a bordo.
Io e la mia compagna avevamo già compiuto azioni simili nei momenti di grande aggregazione, sfuggendo ai controlli della milizia e ponendoci in zone dove potevamo colpire il nemico senza essere visti. La nostra prerogativa era quella di lanciare bombe sugli automezzi nemici che transitavano sotto ponti o cavalcavia, così da poter dopo occultarci senza problemi confondendoci tra la folla. In quell’occasione volemmo studiare un piano ancora più ardito che consisteva nell’attacco con spezzoni a miccia contro i camion nemici che sostavano davanti al Teatro, in attesa che ne uscissero i militari dopo lo spettacolo. Erano automezzi coperti da teloni rigidi con all’interno, sul pianale, alcuni sedili posti su entrambi i lati dove le truppe potevano essere trasportate comodamente. Notammo anche un via vai di auto nere scoperte, col predellino esterno da dove sporgevano, appesi agli sportelli, due soldati in assetto di guerra che scortavano il personale con occhi guardinghi. Dovevano essere i mezzi di trasporto riservati agli ufficiali. Aspettammo che le auto se ne fossero andate dopo aver fatto scendere gli uomini in uniforme di gala, per colpire gli automezzi stanziali, più facilmente esposti al tiro delle nostre bombe.
Sapevamo che l’anno prima, a Praga, alla curva di una strada appena fuori città, una Mercedes decappottabile con dentro l’Obergruppenführerdelle SS Reinhard Heydrich, anche lui di ritorno da un concerto inaugurale, era stata colpita da una sola bomba a mano, ferendo a morte l’ideatore della soluzione finale. I superstiti si erano dati all’inseguimento degli attentatori, i quali erano riusciti a fuggire ferendo uno di loro alle gambe. Itedeschi, per rappresaglia, avevano raso al suolo il villaggio di Lidice: avevano fucilato 199 uomini, 95 bambini erano stati fatti prigionieri e poi uccisi nei campi di sterminio in Poloniamentre 195 donne erano state immediatamente deportate nel campo di concentramento di Ravensbrück. Tutti gli adulti, sia uomini sia donne, nel villaggio di Ležáky erano stati fucilati. Gli stessi attentatori erano stati poi individuati ed eliminati in uno scontro a fuoco.
Ritenemmo quindi troppo rischioso avere come obiettivo le automobili nemiche, anche se ben presto fummo in grado di fare anche quello.
I due automezzi da colpire si trovavano ora sulla piazza, ancora carichi di soldati che, mezzo addormentati, non si curavano di difenderli, né di difendere l’ingresso del Teatro. Lanciai il primo spezzone a miccia che andò a vuoto. Si vide solo una fiammata senza che l’arnese esplodesse. “Ci sono andato vicino.” dissi alla mia compagna e lei di rimando: “Andarci vicino si dice nel gioco delle bocce. Riprova.” Sapevo che era un’esperta in quel gioco e non potei negare che il paragone era calzante. Lanciai il secondo spezzone il quale piombò sul tetto del camion incendiandolo. Poi si udì una deflagrazione che fece tremare tutti i vetri dei palazzi circostanti, alcuni dei quali, quelli delle finestre più vicine, andarono in mille pezzi.
I soldati furono sbalzati fuori dall’esplosione e rimasero sul terreno, ormai senza vita. Da dentro il teatro si udirono le voci concitate dei militari che assistevano allo spettacolo, i quali uscirono di corsa sul piazzale con le armi in pugno gridando “Kaputt, kaputt”. Allora lanciai il terzo spezzone che andò a colpire il secondo automezzo, anch’esso pieno di uomini, che saltò in aria uccidendo quelli che si trovavano all’interno ed alcuni militari che correvano in varie direzioni, come impazziti. Alla fine rimase sul terreno un numero imprecisato tra morti e feriti.
Il piano aveva funzionato e quindi ci dileguammo prendendo le varie viuzze in discesa che portavano alla piazza sul retro della chiesa di Santa Maria Maggiore. Lì ci riunimmo, ci contammo e, visto che nessuno mancava all’appello, ci disperdemmo. Io e la mia ragazza, la quale aveva dimostrato ancora una volta un’arditezza e una calma invidiabili, dopo esserci rifugiati in un caffè e sentendoci quindi al sicuro, ci abbracciammo teneramente, un po’ per scacciare l’ansia e la fatica che l’azione ci aveva messo addosso, un po’ (o tanto) per un sincero, incontrollabile, trasporto dei sentimenti.
di Maurizio Chiararia
(continua)