Non c’è ancora giustizia per l’omicidio di Nadia Orlando.

Il primo agosto di due anni fa, poco dopo le 9 del mattino, Francesco Mazzega, 37 anni, residente a Spilimbergo ma originario di Muzzana, si presentò nella sede della Polstrada di Palmanova in auto, confessando di aver ucciso la fidanzata. All’interno della vettura il corpo senza vita di Nadia Orlando, 21 anni, di Vidulis di Dignano (UD).
I genitori della ragazza, proprio nelle ore in cui l’uomo si consegnava alla polizia, stavano denunciando la scomparsa della figlia dato che, la sera del 31 luglio, dopo aver cenato con la sua famiglia, Nadia era uscita con l’ex fidanzato. I due si erano conosciuti sul lavoro e dopo una tormentata relazione durata due anni, durante i quali era emersa tutta la possessività esasperante dell’uomo, la donna lo aveva lasciato.
E probabilmente proprio dei loro problemi di coppia, delle ragioni per cui il loro amore era naufragato, avrebbero dovuto parlare quella sera. Un ultimo incontro per chiarirsi una volta per tutte e mettere finalmente la parola fine a quella relazione. Ma come spesso succede in questi casi, la discussione tra i due è terminata in modo tragico. Mazzega ha soffocato la ragazza con un cuscino non distante dal fiume Tagliamento, a pochi passi dalla casa di lei, dove i due si erano appartati per parlare.
Nadia è morta soffocata dopo quindici minuti di agonia.
Poi, l’uomo ha vagato per l’intera notte con il corpo senza vita della giovane sul sedile del passeggero. In quella lunga nottata ha percorso chilometri e chilometri, raggiungendo il confine con la Slovenia e tornando indietro, per terminare il suo vagare senza meta a Palmanova.
Il giovane ha confessato subito di essere l’autore del delitto. Per lui si sono quindi aperte le porte del carcere, ma si è trattato di una breve permanenza in via Spalato, a Udine. Dapprima le condizioni di salute del giovane, il forte choc e il rischio che potesse compiere gesti estremi, l’hanno portato in ospedale, dove per giorni è stato piantonato nel reparto di psichiatria. Poi il suo trasferimento al carcere di Pordenone.
A meno di un mese dal delitto, però, il Tribunale del riesame di Trieste gli concede la scarcerazione, in attesa del processo. Inutile il ricorso della Procura di Udine e gli appelli della famiglia e degli amici di Nadia: la sentenza della Corte di Cassazione conferma i domiciliari per Mazzega, con braccialetto elettronico per il controllo.
Per i giudici non è pericoloso e non sussisterebbe il rischio di reiterazione del reato. Può quindi attendere il processo di appello in famiglia.
Questi i fatti, come sono stati raccontati dalla cronaca.
Ora però veniamo alle emozioni, alla sofferenza di un’intera famiglia che da anni deve fare i conti con un dolore devastante, senza rimedio, che lentamente uccide anche loro, con una rabbia dentro che a tratti si trasforma in rassegnazione, con il tentativo di chiedere giustizia, con la speranza di avere giustizia. Perché in fondo l’assassino fu condannato in primo grado a 30 anni di reclusione salvo poi chiedere lo spostamento del procedimento fuori regione. E cercare di capire la motivazione di una simile richiesta. E cercare di far luce sulle spiegazioni date senza riuscire a comprendere come tutto questo sia possibile. Secondo l’uomo infatti, le manifestazioni in ricordo di Nadia, le fiaccolate, gli articoli sui giornali, la giostra mediatica, i dibattiti sul suo caso, le 15.000 firme raccolte per chiedere alla Regione che si costituisse parte civile nel processo (cosa che poi è avvenuta)… insomma tutte queste cose potrebbero “turbare la serenità e l’equilibrio” dei giudici. La Cassazione dovrà quindi decidere se accogliere questa istanza mentre i tempi si allungano. Inizialmente fissata per il 12 aprile scorso, l’udienza davanti alla Corte di Assise di Appello di Trieste è stata poi spostata al 31 maggio. Data che è stata ulteriormente posticipata al 3 luglio quando i giudici decideranno se spostare il processo fuori dal Friuli.
E allora la lotta diventa anche una lotta contro una giustizia “ingiusta”, tutto viene percepito come farsa, commedia, inganno. I ruoli ribaltati in cui ci si deve difendere da chi dovrebbe difendere noi.
Entrando in contatto con la sofferenza dei genitori di Nadia prende forma un ulteriore senso di rabbia, frustrazione, disappunto e tanta disillusione nei confronti della giustizia italiana che troppe volte mostra il suo volto più iniquo e cinico, esasperante ed irritante.
Da anni è stata superata la soglia dell’emergenza per questo cancro chiamato femminicidio. I casi di aggressioni, minacce, stupri e omicidi nei confronti di donne di ogni età e condizione sociale non si contano più.
E sempre, ciò che fa più male, è sapere che queste donne dovranno poi scontrarsi con un mostro più grande e potente, contro la sordità di una giustizia che certamente “giusta” non sembra. Sia nei confronti delle vittime che dei loro familiari. E allora non prendiamocela poi tanto se circa il 90% delle donne vittime di violenza familiare non denuncia e almeno una donna su tre non chiede aiuto.
La madre di Nadia in lacrime ci dice: “Non è ammissibile questa impunità! Mia figlia è stata ammazzata e il paradosso è che il suo assassino attende il processo di appello a casa dei suoi genitori, non c’è giustizia in questo Paese!”. Le lacrime le solcano il viso lentamente, rivive l’ultimo giorno di vita di sua figlia: la sua allegria, il suo ultimo saluto e quella fitta al cuore che le ha fatto presagire la tragedia. Sono ricordi nitidi. Che uniscono nel tormento tutta la famiglia. Per tutti loro la vita è stata interrotta bruscamente due anni fa. E ad acuire quel dolore senza fine ci pensa una battaglia giudiziaria sfibrante. Che lascia intravedere le falle di un sistema giudiziario in cui non c’è la certezza della pena. E allora, ci si unisce in famiglia, ognuno si fa carico del dolore altrui come a sorreggersi da una vita in bilico, in precario equilibrio. Mano nella mano a combattere un’altra battaglia e poi ancora un’altra fino ad attendere la fine di questa guerra. Che però sembra non conoscere fine, per Nadia così come per tante altre donne. E le lacrime di questa madre diventano le lacrime di tutto un paese che chiede giustizia. Semplicemente giustizia. Altrimenti questo senso di impunità consentirà ad altri assassini di uccidere altre donne, certi di non correre rischi, convinti di cavarsela grazie a qualche cavillo burocratico, con pochi mesi di galera o aspettando i successivi gradi di giudizio ai domiciliari.
Quando le regole non ci sono, quando la giustizia diventa qualcosa che si invoca, come un miracolo, allora siamo lontani anni luce dalla volontà di dare un freno a questa ondata di criminalità.
Ci sentiamo tutti soli.
Soli in uno Stato che non sa difenderci e dal quale spesso dobbiamo difenderci noi.

di Stefania Lastoria

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