L’uccisione di Rocco Chinnici, un magistrato dal cuore generoso.

Era la mattina del 29 luglio 1983 e il giudice Rocco Chinnici, come d’abitudine, dopo aver salutato, con un bacio sulla fronte, due dei figli presenti in casa, si accingeva con i suoi uomini di scorta a recarsi a lavoro. Il clima di tensione era cresciuto, in modo palese, negli ultimi mesi, privando il magistrato della sua consueta serenità. Palermo da tempo aveva già visto cadere uomini che si erano distinti per la determinazione nella lotta alla mafia. Le sue intuizioni, la sua capacità di collegare fatti e persone, l’aver posto le basi per un temibile pool antimafia e per un processo a Cosa Nostra che, in seguito, sarebbe stato scritto su pagine memorabili, erano tutte caratteristiche che lo avevano purtroppo reso un possibile bersaglio. E non erano mancate pressanti minacce di morte.

Nella notte tra il 28 e il 29 luglio qualcuno aveva posto sotto la sua abitazione, in via Pipitone Federico, una 126 carica di tritolo. Un auto destinata ad esplodere non appena il magistrato fosse uscito di casa, lasciando tra le pareti domestiche, nell’ultimo rifugio sereno, il suo cuore di marito e di padre.

Rocco Chinnici era, infatti, un uomo del tutto dedito al lavoro e alla famiglia e, per entrambi, nutriva un amore e una dedizione profondissimi, come risulta anche dal racconto che ne fanno i figli. In particolare la figlia Caterina, in un racconto delicatissimo*, ne traccia a noi, che non abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo, un profilo profondamente umano, in cui semplicità, cuore, intelligenza, rispetto, affetti, senso del dovere, si intrecciano facendoci conoscere una personalità eccezionale.
Da magistrato egli pose in essere un grandissimo lavoro, costruito con ore spese su pagine infinite, chiuse in faldoni, tessendo una trama, mese dopo mese, fittissima, che gli aveva permesso di comprendere, più di altri, meglio di altri, il fenomeno e le radici di Cosa Nostra. E per gli approfondimenti di questa conoscenza, per una lotta più efficace aveva scelto tra i suoi più fidi collaboratori, con grande intuito per l’animo umano, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello. Da questo importante sodalizio sarebbero scaturite importantissime indagini e idee, sarebbe nato quel Maxi processo che avrebbe portato, nonostante la sua morte, la mafia siciliana in giudizio.

Uomo di grande coraggio, con la consapevolezza del rischio per la propria vita, in una Palermo amara e sotto lo scacco di gente agguerrita, non rinunciò alle sue indagini, nonostante il crescendo delle minacce. Era in Guerra, consapevolmente in guerra.
L’azione condotta contro il giudice Rocco Chinnici, quel 29 luglio 1983, non fu, d’altronde, solo l’attentato alla vita di un uomo fastidioso, fu la scelta deliberata di incutere timore ad un’intera città, ad un sistema di indagini che stava scoprendo intrecci che non si voleva fossero svelati. Rocco Chinnici aveva sicuramente toccato interessi importanti. E questo non gli fu perdonato.

Quella mattina Palermo si risvegliò con un boato che divelse saracinesche, che fece saltare vetri per centinaia di metri, che distrusse automobili, che lasciò sul selciato i corpi senza vita di Rocco Chinnici, dell’appuntato Salvatore Bartolotta, del maresciallo Mario Trapassi, del portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Unico superstite l’autista Paparcuri. Vite umane strappate con estrema crudeltà all’affetto e alle attenzioni di chi li amava. Quella mattina Palermo perse sicuramente uno dei suoi uomini migliori, assassinato in modo spettacolare, per lanciare un messaggio a chiunque volesse seguire le sue orme.

L’uccisione di Rocco Chinnici non fermò il lavoro della magistratura, perché al suo fianco, per sua scelta, si trovavano giudici come Falcone e Borsellino, perché il suo successore Antonino Caponnetto ne raccolse l’eredità, sperando in un futuro migliore per una terra schiava di dominatori violenti.

di Patrizia Vindigni

  • E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte. Autrice Caterina Chinnici. Ed. Mondadori
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