Iraq, il poeta Kadhem Khanjar ci racconta la lotta per la sopravvivenza

Quella in atto in Iraq non è una rivoluzione quanto piuttosto una rivolta in senso contemporaneo, scevra di un programma politico ma ricca di precise richieste sociali. La rivolta ha comunque assunto una connotazione politica in quanto i cittadini contestano fermamente l’uso strumentale e fazioso della religione.
Le proteste di piazza contro la gestione della cosa pubblica da parte del governo iracheno, iniziate a Bassora, hanno raggiunto la capitale Baghdad innescando una cruenta reazione da parte della polizia che ha ucciso molti manifestanti. Il numero delle vittime negli ultimi giorni è aumentato in modo esponenziale tanto da indurre le autorità, a bloccare i collegamenti Internet e radio. Affinché la gente non sappia, perché solo diramando la non conoscenza dei fatti, lasciando che il popolo sia all’oscuro di tutto si può tentare di sedare e mitigare le manifestazioni della massa ormai giunta allo stremo. Perché in Iraq da troppi anni si muore per conflitti decisi da altri.
Il poeta Kadhem Khanjar, 29 anni, fondatore assieme ad altri giovani poeti iracheni del gruppo “La milizia della cultura”, è appena arrivato a Ferrara per presentare al festival della rivista Internazionale la prima antologia di poesia militante del mondo arabo.
Si tratta di una raccolta degli esempi più significativi di questa nuova scrittura lirica emersa durante la cosiddetta “Primavera Araba” e intitolata “In guerra non mi cercate” – Poesia araba delle rivoluzioni e oltre – in cui sono pubblicati alcuni suoi versi (a cura di Oriana Capezio, Elena Chiti, Francesca Corrao e Simone Sibilio, Edizioni Le Monnier).
Khanjar e i poeti della “Milizia” hanno viaggiato, e ancora lo fanno, attraverso l’Iraq per portare la cultura dove la guerra ha lasciato distruzione. Questo giovane uomo, recita i suoi versi tra le automobili fatte saltare in aria, nei campi minati e nelle case bombardate, tra le ambulanze, le gabbie dell’Isis e le fosse comuni.
La sua prima poesia l’ha composta quando aveva tredici anni durante l’invasione americana dell’Iraq.
Ed è stato durante la sua breve permanenza in Italia che ha rilasciato svariate interviste per raccontare la sopravvivenza nel suo paese, per consentire a tutti di sapere.
Così Khanjar dipinge oggi l’Iraq: “In realtà noi iracheni scendiamo in piazza dal 2011, specialmente durante l’estate quando, nonostante le enormi risorse energetiche del paese, la corrente elettrica salta in continuazione mettendo fuori uso gli elettrodomestici, in particolare i condizionatori d’aria. Questo problema non è banale come può sembrare. In Iraq le temperature arrivano a 50 gradi e la vita dei malati, dei bambini e degli anziani è ancora più a rischio. Inoltre diventa impossibile anche lavorare negli ospedali e negli uffici che diventano torridi. La gente allora, come oggi, scendeva in piazza per chiedere da una parte il ripristino dei trasporti pubblici e delle infrastrutture di base, dall’altra per reclamare equità sociale. Si chiedeva e si chiede il taglio degli stipendi dei parlamentari e dei ministri e un aumento dei salari per la gente comune, oltre a una politica seria per affrontare il dramma della disoccupazione. Questa volta le proteste sono più diffuse e popolate perché la frustrazione si è trasformata in rabbia a causa dell’annosa indifferenza della classe politica e delle mancate risposte a questi problemi. La gente è totalmente disillusa e ha la convinzione che ormai non ci sia altro da fare che protestare a oltranza. Ma le proteste sono pacifiche. Siamo davanti ad una rivolta popolare, non una rivoluzione in senso storico, quelle riportate nei libri. Al contrario è una protesta semplice, che non vanta richieste di tipo politico, non ha un programma né un leader che la guidi, non ha come obiettivo il rovesciamento e la conquista del potere. Ha invece come scopo il riconoscimento e l’ottenimento dei diritti fondamentali, come il diritto al lavoro”.
Gli abitanti dell’Iraq sono 40 milioni, secondo la Banca mondiale il 22,5% vive con meno di due dollari al giorno e a pesare su questo bilancio ci sono le guerre nonché il fenomeno Isis. Passando attraverso molteplici guerre, gli iracheni muoiono in conflitti decisi da altri. A causa della mancanza di un forte sentimento nazionale, oggi l’Iraq è dilaniato da gruppi sostenuti da paesi stranieri, ognuno dei quali fa propri gli interessi di forze esterne. Di conseguenza, l’Iraq è un paese sempre più diviso.
E secondo il giovane poeta Khanjar, che ha studiato teatro, che organizza letture poetiche in luoghi martoriati dai conflitti e dagli attentati, solo la cultura può aiutare le popolazioni colpite dalle guerre.
Cultura come strumento indispensabile: la parola accoglie l’essere umano, trasforma il sangue in storie ma per essere efficace, deve acquisire un certo spessore. Perché la problematica di questi tempi, è che a causare le guerre è la cultura debole, fragile ma tutto ciò si può contrastare solo attraverso una maggiore profondità del sapere, più impegno da parte delle istituzioni, degli scrittori e degli artisti. Ognuno di loro deve dare il proprio contributo. Khanjar chiude il suo pensiero sul “sapere salvifico” con queste parole: “Noi poeti abbiamo il dovere morale di scrivere, di imprimere le emozioni, i sentimenti, di raccontare il dolore delle persone trasmettendo coraggio e speranza. Dobbiamo far comprendere che solo con la conoscenza si può sviluppare il libero pensiero, la capacità di analizzare i fatti in modo critico senza lasciarsi influenzare da chi gioca sull’ignoranza per far diventare nostre le loro idee e i loro pensieri. Si, la giusta cultura è la sola arma essenziale ed efficace per sconfiggere ogni conflitto”.

di Stefania Lastoria