L’Enciclica bombardata
“Quante divisioni ha il Papa?” domanda ironicamente Stalin alla Conferenza di Yalta nel febbraio 1945. Il Pontefice era allora Pio XII, e la sprezzante battuta del leader sovietico era rivolta a chi gli sottoponeva anche le esigenze del Vaticano nel riassetto europeo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. La domanda non ha avuto allora risposta. Oggi, però, qualcuno potrebbe riproporla, a commento della nuova Enciclica di Papa Francesco Fratelli Tutti.
Potrebbe essere riproposta perché, armate o non armate, Papa Bergoglio la Chiesa del secondo millennio la schiera, eccome se la schiera! La dispone su un fronte delle idee e dei precetti nettamente progressista. Più progressista di quello che è rimasto dei novecenteschi partiti cattolico-democratici, socialisti, socialdemocratici in tutto il mondo. E anche delle disperse compagini di sinistra più radicale, dato che – limitatamente e solo in pochissimi Paesi – lo spirito e la prassi d’impegno che le permeava si è trasferito nei partiti verdi. Su questo fronte di salvaguardia della dignità sociale umana, dei suoi diritti e di quelli ambientali Francesco schiera la Chiesa da lui guidata. Il suo è un appello, una chiamata alle armi che sono unicamente oggi possibili, realistiche: quelle della fratellanza universale.
E un fratello deve essere innanzitutto responsabile, rispondere di ciò che dice, non limitarsi al santo sprone e alla relativa benedizione urbi et orbi. Fratellanza, infatti, è innanzitutto apertura. Aprire non significa porre avanti il primato, la superiorità del proprio credo e su questa affermazione tessere una diplomazia delle alleanze. Francesco questo non lo fa in nessuno dei duecento ottantasette piccoli paragrafi di cui si compone la sua Enciclica. Non tace, naturalmente, i principi del Cristianesimo e più volte cita Cristo, i Padri e i Santi della Chiesa. Ed è chiaro che Fratelli Tutti è il prodotto anche delle molte menti, delle molte penne, delle molte dotte sapienze di cui può e deve avvalersi un Pontefice nella stesura di un suo testo così importante. Anche in questo senso egli autenticamente schiera tutta la Chiesa. Ma il suo è un invito alla reciproca apertura. Facciamoci incontro, atteggiamo i nostri reciprochi passi verso l’altro non solo nello spirito, ma anche nell’attitudine concreta all’apertura. Questi sono i mali che sta soffrendo l’umanità e l’intero pianeta, nel suo insieme organico e inorganico. Quali sono le migliori risorse spirituali, culturali, intellettuali, scientifiche, poetiche che ogni fede, credo, testimonianza, agire politico, sociale possiamo tessere insieme per riaprire un orizzonte di speranza? Poeti sociali, così li chiama Francesco, sono i “seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia” (§ 169).
Il tono improntato alla suadenza di molti paragrafi dell’Enciclica non deve però ingannare. Altrettanto numerosi sono i paragrafi in cui nomina ruvidamente le categorie responsabili di non più tollerabili ingiustizie sociali, annichilimenti etnici e culturali, catastrofi ambientali. Supremazia del profitto, dello sfruttamento, del mercato e della speculazione finanziaria, dell’accumulazione e della proprietà privata, della razzia di terre e risorse naturali, del populismo, del nazionalismo sovranista, dell’individualismo liberista, del razzismo anti migranti, e della discriminazione contro le donne. Sono questi i capitoli che hanno fatto schizzare titoli sprezzanti contro Papa Bergoglio da giornali non solo conservatori e di destra, ma anche democratico-progressisti. Accusato di essere un marxista, un comunista, eretico, non si riconosce che lui è nel pieno solco della tradizione della Chiesa. Ne è un esempio il paragrafo 120 sulla proprietà privata. Egli inserisce le sue parole nel solco di quelle pronunciate a loro tempo da Giovanni Paolo II e Paolo VI. La proprietà privata, come il profitto, devono avere un fine etico-sociale. Il diritto naturale originario e prioritario, infatti, è “l’uso comune dei beni creati per tutti”. La ricchezza capitalistica è diritto secondario: va redistribuita equamente. Evidentemente, però, si legge in questa posizione bergogliana non più soltanto una mera predicazione curiale, ma una possibilità di sua attuazione concreta. Affermare che il capitalismo deve ridistribuire il profitto, ossia ridurre sostanzialmente quello che è il suo fine congenito, senza il quale esso neanche si costituisce, significa mettere in discussione la sua stessa esistenza. Il profitto è la ragion d’essere del capitalismo, il suo credo ideologico, la sua fede irrinunciabile. Il capitalismo è esso stesso una religione, come scrive Walter Benjamin nel 1921. La sua accumulazione non può essere intaccata per alcuna, per quanto elevata, ragione etico-sociale, né tantomeno per la sopravvivenza ambientale.
Eppure nell’ora e nell’era della morte di Dio, fatta scoccare dallo Zarathustra di Nietzsche a fine ‘800, la posta in gioco è sempre più questa: il profitto come ingente sottrazione di risorse per la salvezza dell’uomo e della Terra che esso sta distruggendo. Il fronte su cui Fratelli Tutti chiama a schierarsi la Chiesa, tutte le altre chiese, religioni e fedi del mondo è la linea d’orizzonte della speranza. L’ordine di bombardare mediaticamente questa Enciclica dimostra oggi che la domanda di Stalin su quante armate avesse il Papa non era solo la sferzante battuta di un dittatore. Ossia: morta un’enciclica se ne fa subito un’altra. Amen.
di Riccardo Tavani