Vivere immersi in un mito

Se penso all’anno nuovo, lo vedo come una scontata prosecuzione di quello vecchio, tanto mi sembra pieno di incognite e avaro di fondate promesse. Tuttavia l’avvio della campagna vaccinale accende una piccola luce in fondo al tunnel. E’ quindi legittimo chiedersi come sarà il nostro futuro alla fine della pandemia. Sarà migliore? O peggiore? E come saremo noi? Cosa potremo fare? Forse la scienza con un grande reset ci riporterà alle condizioni della vita precedente all’arrivo del virus, o forse no, certo è che ancora per molto tempo vivremo immersi nella Pandemia e nel suo mito. Da mesi contiamo morti a migliaia. La prossimità alla morte raramente genera discorsi pacati e ragionevoli e  a torto pensiamo che i momenti più vicini alla morte siano i momenti in cui la verità viene a galla. La morte invece, e soprattutto la paura della morte, è da sempre alla base della costruzione di narrazioni “speciali” che chiamiamo “miti”.

Ogni qual volta l’uomo non arriva a comprendere le leggi che governano la natura, le cause della vita e della morte, del bene e del male, quando non capisce i motivi storici che hanno determinato la sua condizione e rischia di smarrirsi, di cadere preda dell’ansia e della paura, solo attraverso i miti  trova il senso della realtà. L’umanità da sempre costruisce miti come risposta alla rottura degli schemi cognitivi che sottendono al mantenimento della rassicurante stabilità della vita quotidiana. I miti dunque non sono favole, ma storie che hanno una identificabile struttura narrativa, che deve essere familiare all’audience, la cui forza tende a costruire un’identità collettiva interpretata come “senso comune”.

E’ passato quasi un anno dalla scoperta del Covid-19 come malattia nuova e sconosciuta. Da allora il Covid-19 è l’argomento principe dei canali di informazione: la nuova malattia è riuscita a far passare in secondo piano qualsiasi altro problema o notizia e ad offuscare i miti precedenti: la guerra al terrorismo, la minaccia dei migranti, l’emergenza dei mutamenti climatici.

Prima di questa molte altre pandemie “mitiche” ha vissuto l’uomo, non globali come questa che stiamo attraversando, ma comunque grandi epidemie che hanno colpito intere popolazioni. La peste è stata il motore che ha innestato l’azione in uno dei più grandi poemi epici della storia: l’Iliade.  La peste narrata nell’Iliade è voluta da un dio potente adirato con il capo degli Achei, Agamennone, perché ha peccato di prepotenza rifiutando una legittima  richiesta di un sacerdote.  E se la peste è provocata da un dio come punizione per i torti commessi dagli uomini, allora tutte le sciagure, tutte le epidemie, secondo gli antichi sono opera soprannaturale. Nell’Iliade il mito non si occupa tanto di dar conto dei sintomi della malattia quanto di denunciare un colpevole (Agamennone) e indicare una via d’uscita (la soddisfazione delle richieste del sacerdote offeso)

L’Iliade non è la sola opera greca che inizia con una epidemia: anche l’Edipo Re di Sofocle si apre affrontando una pestilenza. La tragedia inizia con i tebani che chiedono aiuto a re Edipo per arrestare il morbo che sta decimando la popolazione. E’ incerta la datazione della tragedia: secondo alcuni debuttò nel 413 a.C., secondo altri nel 425 a.C. e sarebbe stata ispirata dall’epidemia che aveva afflitto la città di Tebe alcuni anni prima. Anche in Edipo Re la peste è una punizione divina: in questo caso il peccato che l’avrebbe provocata sarebbe stato l’assassinio impunito del re Laio. 

La tragedia di Edipo conferma la visione mitica che già era apparsa dell’Iliade : le pandemie sono punizioni per una colpa commessa contro la volontà divina. 

Ma oggi, a più di duemila anni di distanza, come nasce il mito della Pandemia che stiamo vivendo oggi?

Bisognerebbe provare a pensare alla pandemia come a una creatura mitica. Molto più complessa di un semplice evento sanitario, rappresenta piuttosto una costruzione collettiva in cui diversi saperi e svariate ignoranze hanno spinto nella stessa direzione: innocui eventi sportivi, profili social apparentemente insignificanti, governi fragili, giornali sull’orlo del fallimento, semplici aeroporti, anni di politica sanitaria, il pensare di innumerevoli intellettuali, comportamenti sociali radicati nelle più antiche tradizioni, app improvvisamente utilissime,il ritorno sulla scena degli esperti, il silenzioso esserci dei giganti dell’economia digitale, tutto ha lavorato per generare non un virus, ma una creatura mitica che dall’incipit di un virus si è impossessata di ogni attenzione di tutte le vite del mondo. Prima e più velocemente della malattia, è quella figura mitica che ha contagiato l’intero mondo. Quella è la vera pandemia. Riguarda l’immaginario collettivo prima che i corpi degli individui.”

(da “Quel che stavamo cercando”)

La narrazione mitica non riguarda soltanto gli dei, i miti -si sa- generano eroi. La pandemia che oggi ha coinvolto l’intero mondo e tutti gli Stati in maniera pressoché uguale, ha convogliato l’emotività collettiva nella figura mitica e immaginaria dell’eroe che su di sé prende tutto il peso del mondo per poter successivamente ricreare un nuovo ordine e una nuova riorganizzazione, anche sociale. In breve tempo la figura mitizzata dell’eroe-medico, dell’eroe-infermiere, ha incanalato tutte le aspettative e preoccupazioni di un’intera collettività, dimostrando così che anche nell’età contemporanea la struttura del mito non muore e che forme di ancoraggio sacrali e affettive sono tutt’oggi presenti, modificate solo dagli eventi storici o da cause esterne all’uomo.

di Daniela Baroncini