Eco e riflessi di Spoon River Quindici Poesie

Susi Ciolella e Claudio Caldarelli scavano parole, versi e ritmi asciutti, ridotti al minimo, ma proprio per questo immediatamente squarcianti: S’inginocchiò e pianse/ nei campi di fragole/ di Rosarno infuocato. Squarciano, aprono verso l’esterno, ma nello stesso tempo spingono dentro, nell’intimità del dramma riportato al presente della poesia. Helin anima mia bella/ breve vita intensa/ sulle cime dei fucili/ capelli neri tra i fiori/ e sangue di rugiada.

Sono i versi di due diverse poesie che mi capita di prendere quasi a caso, sfogliando Spoon River Quindici Poesia, la silloge poetica di Caldarelli e Ciolella, recentemente pubblicata da Eretica Edizioni, e che comprende anche quattro racconti in prosa. Di Susi Ciolella ho già qui recensito, nel dicembre del 2019, Le parole ribelli, dello stesso editore. Potrei prenderne molte altre di tranche poetiche simili, come questi versi dedicati a Carmen Yanez: Specchio della mia carne ferita/ discendi ai labbri/ invocando la luna/ petali di rose senza spine. O anche: Acervo di umanità sparsa/Identità velata/ sagome disciolte nelle pieghe di vernice bianca.

Il tema della raccolta lo suggerisce il suo stesso titolo: Spoon River, i morti che dormono, dormono sulla collina, come canta anche Fabrizio De André. Un tema, dunque, spinoso, se non proibitivo, che i due autori giustamente non tanto fronteggiano, quanto saggiamente echeggiano, ossia gli donano eco, nel suono di una lingua poetica intonata a gravità appropriata perché spoglia. Un sentiero di eco semantiche scabre che era forse l’unico consentito percorrere nei giorni delle abitazioni ridotte a trincee anti pandemiche, delle strade deserte, dei camion militari e dei cimiteri pieni di bare.

C’è una domanda, però, che mi è sorta ancora prima di acquistare il libro e di iniziare a leggerlo. Perché appropriarsi di quel titolo così riverberante nella poesia del Novecento? Non che Edgar Lee Masters, l’autore della celebre Antologia di Spoon River, uscita nel 1915 in America, se la sarebbe presa a male. Anzi, è un omaggio in più alla sua opera. Oltre De André, con i versi tradotti e adattati da Fernanda Pivano, un altro poeta, Simone Consorti, nel 2018, ha chiamato Spoon River Italia, la terza parte della sua raccolta Le ore del terrore. È piuttosto che lui, Lee Masters, ha considerato quei morti talmente ormai liberi dalle loro precedenti menzogne e ipocrisie da mettere a nudo ora quelle di coloro che li hanno sotterrati, che sono loro sopravvissuti, e popolano il presente. Il bersaglio è la falsa retorica non solo di quella piccola cittadina dell’Illinois, e neanche di tutta la nazione americana, ma dell’intera patria umana.

Anche i morti nella raccolta di Ciolella e Caldarelli denudano, denunciano: lo sfruttamento, il razzismo, l’indifferenza, i muri sui mari, la civiltà blindata, asfissiata dentro la propria fortezza. In ciò, però, essi non demoliscono, ma eleggono una patria umana, e una sua conseguente retorica.

L’eroico sociale, solidale, oltre ogni confine contro l’egoico odio e sovranista. E a ragione, intendiamoci, in quanto a intenzioni e contenuti. Ma a ragione, deve qui intendersi innanzitutto a ragione poetica, ossia antiretorica. Proprio il Pier Paolo Pasolini delle Poesie su commissione, della Richiesta di lavoro, citato nell’introduzione ce lo dice. È il Pasolini del Transumanar e Organizzar, la sua ultima raccolta poetica del 1971. Egli dichiara di ritirarsi dal suo stesso stile poetico-letterario, per transumanare (verbo dantesco), ossia per tentare di andare oltre l’umano e sfuggire alla liturgia dell’organizzare, ossia di qualsiasi forma di istituzione umana che ti costringe intrinsecamente a una sua retorica. Pasolini cerca i comunisti perché essi lo mettono in contatto con gli operai, i proletari, ma a lui interessa la vita vera, diretta di questi, non le forme della liturgia politica, cui egli stesso, però, non potrebbe fare a meno di attenersi se s’iscrivesse al PCI. Il sociale è l’organizzar, cui la poesia non può sfuggire nel suo slancio di libertà verso il transumanar, tanto da rimanerne tarpata. Per questo il poeta contrappunta continuamente la cronaca spoglia, de-stilizzata del reale con quella della più intima dimensione esistenziale. Tentando, soprattutto di sfuggire al retorico che ogni volta si insinua, non solo nell’eroico, ma persino nell’antieroico, certamente nel sociale ma non meno nel personale.

La categoria del retorico, però, come ho detto, non è tanto lungo il sentiero linguistico percorso da Ciolella e Caldarelli. Se non forse in qualche ciglio meno avvertito. Come  nei versi dedicati a Luis Sepúlveda: Resterai nella speranza delle rose di Atacama/ nelle lotte dei compagni rivoluzionari/ nell’amore di un’umanità senza frontiere. O in quelli al partigiano Diavel, dove risuona persino l’impeto oratorio di certi inni anarchici: Pietra su pietra trasuda/ sudore e speranza/ di prematura vendemmia/ a dar sollievo al male. No, invece, il linguaggio degli autori è generalmente tale da conferire dignità poetico-esistenziale alla materia e al canto. È semmai il genere dell’orazione funebre in versi che rischia di costituirsi in sé come retorica, anche perché è perlopiù pure il tema della precedente raccolta di Ciolella. Più che poesie su ordinazione, preghiere su commissione. Ché restituiscono certo  voce ai calpestati dal potere e dal profitto, ma lo fanno innalzando urne cinerarie su un altare rituale. Come se l’arte tornasse alla sua originaria funzione cultuale, del culto dei morti nei riti dei potenti, dalla quale si era emancipata per assurgere alla propria autonomia espressiva. E d’altronde quello della morte, proprio negli attuali social, torna a rifulgere quale rito di potere attorno ai morti illustri, amministrato ai propri fini da chi controlla i dati sensibili che gli consegnano ogni giorno più di due miliardi e mezzo di viventi nel mondo.

Il margine contraddittorio, dunque, tra anti retoricità del linguaggio e retorica del genere costituisce proprio quel difficile sentiero artistico che Caldarelli e Ciolella hanno percorso per scendere negli inferi dell’evento pandemico, traguardandolo con gli occhi di chi già all’inferno era stato scaraventato dalla macelleria sociale. È, la loro, una sperimentazione in progress, una ricerca nello stesso agire poetico di una via per cantare il sociale all’altezza della nostra nuda epoca tecnica.

di Riccardo Tavani

 

 

Print Friendly, PDF & Email